E’ guardando a questo monumento alla memoria di una città defunta, che Lev Dodin, il regista russo alla guida del teatro Maly di San Pietroburgo – ospite con il suo spettacolo alle Orestiadi, dirette da Gianfranco Capitta – pensò ad un’altra città fantasma, Cevengur, nata dalla fantasia visionaria del russo Andrei Platonov, che nel 1927 scrisse questa satira dolce-amara sull’impossibilità delle utopie sulla terra. Una visionaria e sofferta critica all’idea del comunismo perfetto che costò allo scrittore la censura e la repressione staliniana.

In una suggestiva scenografia a ricostruire, sullo sfondo del Cretto di Burri tra i ruderi di Gibellina, questa città fantasma attraversata da un canale d’acqua e un imponente praticabile trasparente che si solleva per divenire, di volta in volta, pavimento o parete di questa città scavata nella terra come un’enorme fossa circondata da croci, Lev Dodin fa agire i suoi straordinari interpreti nei panni degli abitanti di un immaginario villaggio che un giorno, al grido dì “umiliati e offesi di tutto il mondo unitevi”, decidono di sbarazzarsi di padroni e sfruttatori e di realizzare il loro sogno di un’utopia perfetta.

Ogni evento naturale, dal levarsi del sole, alla migrazione degli uccelli, alla conformazione dell’universo, viene interpretato come il segno di una nuova vita, che i nostri rivoluzionari chiamano comunismo. Ma non basta abolire il lavoro, praticare un’idea di giustizia e fratellanza per arrestare il dolore, la noia, la tristezza o l’assurdità della morte di un bambino. Di fronte al fallimento del sogno, alla fine dello spettacolo, tutti gli abitanti decideranno d’immergersi, per annegarsi, nel fiume che diverrà la strada misteriosa per traghettarli verso un altrove. Un altro luogo del sogno, alla ricerca di un’utopia felice.