L’ultimo trattamento che probabilmente circola in Italia è La notte di Beate, proveniente (non c’è bisogno di ricordarlo a chi ha familiarità con lui) da Beate e suo figlio, splendidamente tradotto per Adelphi da Magda Olivetti. Si tratta di uno dei gioielli del nostro, disteso narrativamente su un lago nei pressi di Vienna: qui passano le loro giornate Beate con il figlio Hugo, diciassettenne. Beate è vedova, ma ancor sposa incantata dalla personalità del defunto, quella di Ferdinand Heinold, attore famoso, in realtà donnaiolo, in realtà più larva che uomo, in realtà quasi spettro che aleggia con una sorta di maledizione quasi ibseniana sul destino di Hugo, che va ad innamorarsi di una donna fatale da cui lo separa un baratro d’anni. O forse di maledizione naturalistica non bisogna parlare, dal momento che Beate, sciolta ogni devozione cimiteriale diviene l’amante di un amico di Hugo, Fritz. E allora anche il naturalismo, l’ombra della maledizione padre-figlio, dissolvono: Schnitzler non è certo autore da farsi ingabbiare da determinismi di sorta. Quello che più gli preme è quasi scoperchiare l’anima dei suoi personaggi. E cosa vi trova? Viluppi di materia sepolta, fluidi insiemi di sensualità e follia, correnti che attraversano le menti, violazioni continue all’ordine borghese, fughe nel sogno, doppio o singolo che sia. Con la luce del giorno sempre pronta a riaffacciarsi e a chiedere il conto: a quel punto la realtà, pesante, castigatrice, carceriera, prenderà ogni rivincita su qualsiasi volo. A meno che non si voglia proseguire nella notte, ove la strada è senza ritorno. Così Beate trascinerà la carne della sua carne sulla barca, sopra il lago al discrimine dell’alba: qui la scena dell’incesto mai portata a termine, avvolta, come un tendone censorio, dalla morte nelle acque, fluido placentare di segno negativo.

Questo per quanto concerne l’essenziale della fabula di Beate e suo figlio in chiave d.o.c.. La già citata Notte di Beate (in scena fino al 19 dicembre alla Sala Uno, gestita dal Teatro di Roma) non riesce però ad evitare che si dichiari un certo imbarazzo. E il peccato d’origine sembra giacere proprio a monte, quando si è preso il testo e lo si è trasformato in qualcosa di ibrido senza gusto, metà stream of consciousness, metà narrazione narrata dalla protagonista stessa. Vale a dire la risultante assai naïf dell’arbitrio generato da Gianfranco Fiore, che figura in talune distribuzioni come responsabile di “riduzione, adattamento teatrale e regia”, in talune altre come responsabile di “riduzione e adattamento teatrale”, come se la funzione registica di lui, che ha già presentato il tutto al Festival di Benevento, fosse un optional.

E forse si è accorta di questo clima incerto, la protagonista Anna Bonaiuto, che non manca di accordare lo strumento vocale (colloquialità mixata con discese verso il registro grave) giocando col concorso di una gestualità convenzionale. Ma lei, appunto, esposta senza schermi (le fanno da sfondo uno specchio e un divanuccio senza qualità), forse ancora vivente come color che son sospesi fra desideri inconfessati di divismo e ricordo delle cantine e dell’off, deve alla fine inventarsi qualcosa, una regia tutta sua, magari segreta, per colmare il vuoto di input o la gran timidezza di chi dovrebbe dirigerla.

Cinquantacinque minuti: pochi. E dunque la storia non ha corpo, con liaison non troppo chiare. Quando si ambisce a ridurre, bisogna aver fegato, genio, idee belle chiare e squadrate, intellezione dei nessi. Voglio ricordare come galleggiava in malinconie ben espresse la stessa Bonaiuto ne Le false confidenze di Marivaux ridotte in pillole da Toni Servillo. Ma si trattava di riduzione di genio. Tornando al nostro amato medico viennese, riaffiora alla mente La signorina Else in versione teatrale, con l’attrice macchina Micaela Esdra diretta da Walter Pagliaro, il quale preferì far dire alla protagonista tutto l’intero libro, dalla prima all’ultima parola. Allora i conti tornarono perfettamente.