a1n1sogno1Milano – E’ stato probabilmente l’avvenimento della stagione teatrale italiana, oltre che il debutto di Luca Ronconi in veste di direttore al Piccolo Teatro di Milano. E dopo averli visti e rivisti, i due “sogni” continuano a crescere nella memoria dello spettatore, diversi se non opposti, eppure complementari in quel terreno incerto che è il teatro. Il teatro è del resto un “sogno” o una visione, per definizione e per atto costitutivo, anche se nasce dalla realtà che lo produce. E, come il sogno rispetto alla veglia, quella realtà rappresenta e spesso ne svela, in maniera non razionale, quello che vi è più oscuro e indecifrabile.

Sulla scena sterminata della nuova sala Strehler, Ronconi ha finalmente realizzato La vita è sogno di Calderon de la Barca. Un testo che era nei suoi progetti da sempre, e che è stato l’archetipo e il fine del Laboratorio di Prato, dove però, a metà degli anni 70, se ne allestirono le riscritture novecentesche, il Calderon pasoliniano e la Torre di Hoffmansthal. E quel testo barocco è divenuto grazie alle scene di Marco Capuano e ai costumi di Carlo Diappi, una esplosione della fantasia ronconiana, che fa alzare il sipario su un nero cavallo alato che grazie a una intelaiatura meccanica percorre in tutte le direzioni il fondale giallo abbacinante.

Ma fin dalla prima battuta di Rosaura-Andrea Jonasson, “Ippogrifo violento …”, c’è subito la fisicità drammatica degli attori, un conflitto di sessi, poteri, desideri che hanno il loro apice nello scontro, su un ring da boxe, tra padre e figlio, Basilio e Sigismondo, Franco Branciaroli (che a Prato era il figlio) e Massimo Popolizio, due generazioni di attori (e di attori ronconiani) che qui combattono, nudi, con le armi del teatro e della poesia. Uno scontro che è archetipo di tanto altro teatro, una figura primaria che in quella solarità nettissima si fa paradigma di tanti altri sogni e incubi.

a1n1sogno2Al contrario, a pochi passi da quella sala, al Teatro Studio, Il sogno di August Strindberg, mostra delle evocazioni notturne l’oscura verità, le ambizioni e il dolore. Scende l’età degli attori, ma si triplicano i ruoli per aver Ronconi affidato il ruolo della figlia di Indra rispettivamente nei tre atti a Laura Pasetti, Rossana Mortara e Galatea Ranzi, così come Francesco Colella, Sergio Leone e Daniele Salvo sono i loro tre interlocutori. Il buio di un velo nero avvolge quell’incubo a pianta centrale in cui la divinità orientale manda sua figlia in terra per capire a cosa sia davvero dovuta l’infelicità degli uomini. E da quel fango diffuso, da quei segni scenografici essenziali (elaborati qui da Margherita Palli, dalla porta “magica” che apre sul nulla alla illusoria barchetta di Portobello), prendono corpo caparbio la pietà e l’insoddisfazione del “sociologo” Strindberg.

Non solo la vita, anche il teatro è sogno, e questi due spettacoli, così violenti e lucidi nella loro simmetria, indicano allo spettatore la speranza possibile di aiutarsi a leggere l’una con gli altri.