Roma – Quanti gli adattamenti dal romanzo Piccole donne (ne è autrice Louisa May Alcott) dovuti al cinema? Non son pochi: si registra una versione muta del 1917; un altro adattamento, anch’esso senza sonoro, è per la regia di Harley Knoles, anno 1918. Poi è l’ora della pellicola del 1933, con la firma di Cukor, seguita da una versione del ’49 (Mervin LeRoy), e ancora un tentativo del 1994, in chiave protofemminista, con Gillian Armstrong dietro la macchina da presa.
In teatro, giungono, ultime, per il momento, Paola Sambo e Gloria Sapio, che di quelle vicende del Massachusetts dell’Ottocento, prendono qualcosa, ma non tutto, fedeli del resto all’arte della contaminazione che le ha accompagnate in tutta la loro carriera di duo più che semplicemente comico, risiedendo nelle nostre amiche un progetto tramato di perfezione, mirato al canto, alla recitazione, alla musica dal vivo, senza disdegnare qualche piccolo ghirigoro coreografico, se mai ce ne fosse bisogno. I loro spettacoli sono leccati, rifiniti, cesellati senza concedere spazio al tratto tirato via.
Il catalogo delle loro produzioni annovera Un bacio a mezzanotte, esplorazione nel mondo delle riviste femminili fra gli anni 50 e 60; La radio a galena, ove si rievoca il periodo pionieristico delle trasmissioni “senza fili”; Les soeurs Lumiere, che già dal titolo rivela la derivazione da un rivangamento dei classici del cinema francese; Uno spicchio di luna, intorno al boom economico peninsulare. Penultimo gioiellino è stato Cosettina, viaggio nei dintorni di Carolina Invernizio, nella vita di una madre irreprensibile, nel lavoro di pioniera di tante soap inverosimili, fra horror, sepolte vive e ansie futuriste e tentazioni erotiche che introducevano al nuovo secolo. Fu una gran bella riuscita quel Cosettina, tanto da meritarsi una segnalazione all’Ubu ’98 nella categoria premi speciali.
Sambo e Sapio sono ancora fra noi col loro nuovo Piccole donne (a Roma, Teatro Due, fino al 16 aprile), senza far mancare la presenza del fedele musicista Silvestro Pontani, qui e là attore volenterosissimo, fratello delle due donnine semischiavizzate intorno ad un focolare dove sbucciare patate e mele è cosa d’obbligo, restando la possibilità d’evasione nella letteratura e nel giornalismo. Ma non tutto è Massachusetts in chiave secolo decimonono, in questo Piccole donne. La contaminazione più palese è con il mitico nucleo Brontë, mentre l’esito finale è invece la licenza di fuga, di sogno, via dalla reclusoria cucina con uccellino sul trespolo. La diaspora lontano dal pascoliano nido si consuma fra viaggi magari sognati e raccontati, persi nella grande città che tanto appassionava gli osservatori più acuti posti agli sgoccioli dell’Ottocento. Il tutto nella prospettiva vagamente bamboleggiante e country disegnata da Robby Scodnik col dettaglio e la fantasia consuete: contenitore che però non tiene in sé uno spettacolo in grado di spiccare un vero volo da terra. Chissà cos’è che non funziona perfettamente in questo Piccole donne. Gli ingredienti ci sono, la cura è la stessa di sempre, la professionalità evidente. Ma si resta ancorati in un clima un po’ angusto in quanto a rilievo scenico. Forse l’operazione di contaminatio non è così pregante come in altri lavori; il copione è spesse volte opaco; le liaison sforzate o troppo sottintese: si resta col desiderio di voler di più, si ha l’impressione che qualcosa di necessario e stringente manchi.