Roma – Stefano Napoli incarna la figura del regista dell’avanguardia romana mitica dei bei tempi trascorsi. Un sopravvissuto, magari, col suo teatrino dedicato all’uopo, come si usava una volta: penso a Pippo Di Marca, e soprattutto ad un gigante a
torto un poco trascurato come Memè Perlini, praticamente inscindibile dal memorabile spazio del Teatro La Piramide, luogo di meeting di una certa intellighenzia e dello spettatore colto e appassionato, quest’ultimo oggi forse assai depauperato dei punti cardinali che una volta costituivano indirizzi al consumo del prodotto teatrale di qualità e di tendenza.

Dunque, Napoli, pur sopravvissuto, e di fama seguente agli splendori perliniani (comincia ad offrirsi alla scena dal 1980, quando la parabola creativa dei “vecchi” raggiunge il culmine della luce e scivola sul crinale della sovrabbondanza decadente – e ancora penso a Perlini, al suo memorabile Eliogabalo e al successivo Picasso, già intaccato dall’autocontemplazione perniciosa), mantiene dritta la barra della fruizione capitolina più o meno underground. Ha il suo teatrino, che come tabernacolo viene aperto ad ogni suo nuovo spettacolo, sala che si chiama Teatro Ulpiano, e fiancheggia il Palazzo di Giustizia. Percorso quasi catacombale per giungere alla sala dell’esibizione, l’ultima della serie, che si intitola Ruggine (in scena fino al 13 aprile), ed è derivata, così ci viene spiegato, da un “sogno” sui Persiani di Eschilo. Sul retro della sala, da un altoparlante, come se fossimo in un aereo o pullman turistico, in tre lingue diverse viene servito il menu: la storia di Serse che, tormentato dall’ambizione e da un complesso di colpa nei confronti della figura paterna massima, il grande Dario, muove forze immani contro Atene e viene spettacolarmente sconfitto. Lasciatosi dietro un mare di morti, si chiude negli splendori della reggia e, anziché pensare alla guerra, trama progetti architettonici. Un gruppo di congiurati lo uccide nella sua camera da letto.
Questa la storia, che lì finisce. In scena Napoli spiana una fuga di prospettive, mette in piedi una scatola ottica che si vede meglio dai posti centrali, sogna colature di sangue, corone finte, rossi sipari e venature dorate. I suoi attori sono oggetti, principalmente. E giovanotti scolpiti, raggelati nella impossibile rincorsa di una statuaria antica, ma evitando con cura che l’ultima fiamma di vita si estingua, che questo teatro di processioni in bassorilievo diventi oggetto morto. Il clima richiama, forse, tanta sperimentazione dei fratelli Lievi (ma questi ultimi sono più postmodern, lucidatissimi, quasi puro design), senza ignorare turgori perversi da basso impero, fra Jarman, Dolce e Gabbana e il già nominato Perlini. Sullo sfondo, ricordi di altre corti, ricordi della Spagna di Filippo II, letto come sovrano della gozzoviglia e non cupo difensore dell’ortodossia prono ai voleri dei sommi inquisitori, col tappeto sonoro del Don Carlo di Verdi. Ma anche con inserti di Barry White, che dà il tono ad una partita di rugby scansionata dall’accendersi e spegnersi di luci, fino a proporre istantanee a mala pena sottratte al congelamento fotografico. Ove la donna, in tanta offerta di nude look e canottiere velate, appare più come sagoma riempispazio, con preferenza per il drappeggio che veste e le forme ad anfora in rilievo. Ove l’inserto video che è proposto a metà dell’opera avremmo preferito non vederlo affatto, vista l’impressione di sciattezza che fa precipitare in scena, rompendo per qualche minuto l’offerta muta e ricercata di questo teatrino della sofisticazione, salvo per un pelo dalla gora morta della contemplazione estetizzante nella quale tante operazioni sono facili ad incagliarsi. Malgrado tutto la nave non resta prigioniera delle sabbie: settanta minuti giocati con oculatezza, quasi senza motto proferire, mantenendo in atto una vibrazione che evita il depositarsi di una glassa fatale sui sogni tridimensionali di Stefano Napoli.
Dopo Roma, Ruggine sarà in scena l’8 e il 9 maggio al Teatro Rondò di Firenze, nell’ambito della rassegna ETI “Maggio cercando i teatri”.