a1n6ultimaRoma – E’ freschissimo di stampa il volume Nuova scena italiana, utile fatica di Stefania Chinzari e Paolo Ruffini che idealmente “consacra” le esperienze teatrali sbocciate e cresciute negli anni Novanta. Edito da Castelvecchi, sicuramente tra gli editori italiani più sensibili a raccogliere tendenze e tensioni subculturali, il libro concentra l’attenzione su “Il teatro dell’ultima generazione” (come da sottotitolo), piantando un importante paletto nel percorso di ricerca dei gruppi presi in esame dai due autori. Esso diviene quindi uno strumento divulgativo – per quanti abbiano perduto, per questioni anagrafiche o per distrazione, il farsi di questo teatro nel corso dell’ultimo decennio – che in qualche modo sistematizza e distingue il variegato panorama delle arti sceniche. Inoltre è un libro che può funzionare da stimolo per il lavoro delle stesse compagnie – le più “giovani” – i cui esiti, in alcuni casi, sono ancora in divenire, ovviamente.
L’arco di tempo esaminato da Chinzari e Ruffini si apre alla fine degli anni Ottanta con un primo capitolo dedicato al riassetto di formazioni che avevano segnato la sperimentazione teatrale nel corso di quel decennio. Sono pagine che raccontano di travasi, confluenze e separazioni, con la nascita di Teatri Uniti e della compagnia di Barberio Corsetti. E paragrafi per I Magazzini, Le Albe e il Teatro Valdoca, Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, il Laboratorio Teatro Settimo e “Altri percorsi di ricerca”, dove compaiono da Carmelo Bene a Leo de Berardinis, da Remondi e Caporossi a Cesare Lievi, dai Krypton ad Alfonso Santagata e fa capolino Thierry Salmon. Viene disegnata, così, una mappa certamente interessante e sintetica, pur nelle sue ottanta pagine che parlano anche, e tra gli altri, di Danio Manfredini, di Pippo Delbono, di Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza e di Luca Ronconi. Si arriva, poi, al paragrafo che presenta alcuni autori-attori, forse la parte più ca rente di nomi di questo primo capitolo.
Si entra invece nel vivo della materia che da valore a questa nuova pubblicazione nel secondo capitolo, interamente dedicato alla Socìetas Raffaello Sanzio, che i due autori assumono come punto di svolta, se così si può dire, e pietra miliare per le forme teatrali degli anni Novanta. Indubbiamente riferimento per molte delle ultime formazioni di ricerca, il ventennale lavoro della Raffaello è presentato attraverso analisi di spettacoli e colloqui diretti con Romeo Castellucci. Ne esce un ritratto a tutto tondo, che nel bene e nel male tradisce un amore passionale degli autori per il gruppo di Cesena.
Nelle oltre 200 pagine di questo libro (lire 24.000), arricchito da molte foto, il terzo capitolo è una testimonianza essenziale che avvia una ricognizione su “la generazione degli anni Novanta”. Si tratta di un documento pionieristico (Pippo di Marca, lo scorso anno, nel volume Tra memoria e presente, ha iniziato a raccogliere informazioni sull’ultima generazione teatrale, lasciando parlare direttamente alcuni gruppi), da tenere in considerazione per procedere nell’indagine. Chinzari e Ruffini qui danno conto di moltissime realtà soffermandosi in particolare sul lavoro di Motus, di Teatrino Clandestino, dell’Accademia degli Artefatti, di Masque Teatro e di Fanny & Alexander, riportando la presenza, tra gli altri, di Lenz Rifrazioni e del Teatro del Lemming, con dei limiti che non sono nella tendenza ad un’impossibile completezza (le mancanze o i brevi accenni appaiono piuttosto derivare da legittime scelte dettate dalla sensibilità dei due critici), ma forse ad una catalogazione un poco avulsa dal contesto socio-economico-territoriale nel quale queste realtà si sono sviluppate. La presa d’atto della cosiddetta Romagna felix avrebbe potuto introdurre a problematiche legate alla mancanza di eruzioni teatrali tanto violente in altre parti d’Italia. Ma quello di indagare “il teatro che non c’è” è un altro libro che dovremmo pensare di iniziare a scrivere.
Prima delle appendici dedicate a teatrografie e videografie dei cinque gruppi ai quali i due autori hanno riservato maggiore attenzione, l’ultimo capitolo affronta i linguaggi della nuova scena. In questa sorta di conclusione emergono e si motivano contaminazioni e mediazioni, si offrono riferimenti filosofici e possibili chiavi di lettura di queste opere (pochissimo protette dalle Istituzioni) che condensano le Arti e sono espressione profonda di questa nostra epoca. Ciascuna nella propria specificità opera “estrema” – tanto per abusare ancora una volta dell’aggettivo – quando sconquassa e travolge lo spettatore con la sua tensione a non mostrarsi.
Una parte manca, e sarebbe stata invece utilissima vista l’ampia mole dei materiali citati, l’indice dei nomi, delle compagnie e degli spettacoli.
Vale la pena di ricordare, infine, che il libro di Castelvecchi si apre con una prefazione dell’acre e disincantato Goffredo Fofi, rimasto incantato – e a ragione – davanti a questo pullulare oltraggioso della nuova scena italiana. (M.S.)