a1n6rose1Roma – Ha un certo sapore beckettiano, più volte sottolineato da adattamento e regia, questa versione di Rosencrantz e Guildenstern sono morti, a cura della mano registica di Andrea Renzi (che figura appunto anche come “adattatore”), nella traduzione di Francesco Piccolo, cui è stata affidata la diffusione in italiano del testo famoso di Tom Stoppard. Che già, volentieri, si bea di tramature metateatrali, leggendo (e inventando) la storia di due personaggi non troppo centrali dell’Amleto, i quali servono a vedere dal buco della serratura le vicende della corte di Danimarca, quella corte dove il marcio impera e per la quale vaga il principino famoso. Che, nel corso della messinscena prenderà appunto le vesti di Andrea Renzi, uno dei frutti migliori dell’ensemble napoletano di Teatri Uniti, attore più volte plasmatosi sotto le indicazioni di Servillo e Martone, giunto ormai ad una sua particolare eleganza formale che ben si sposa con l’affermarsi dell’età matura (si vedano le sue recenti perfette interpretazioni in Tartufo e Le false confidenze). Qui, però, nel caso di Rosencrantz e Guildenstern sono morti, lo spazio di primo piano (su un letto di foglie autunnali leggermente nausebonde all’olfatto) è dedicato a Toni Ludadio ed Enrico Iannello, ora Rosencrantz, ora Guildenstern, come il caso vuole, all’interno di uno schema di facile intercambiabilità, fino all’appiattimento totale del personaggio bicefalo, ingenuo, ragionatore a vuoto, sagoma spostata da un luogo all’altro secondo esigenze e capriccio. Capriccio del destino, magari, o capriccio della scena e dell’autore (e del regista, anche) che, metateatralmente, come si avvertiva sopra, allestisce fondali vari dove la trama principale, che sarebbe amletica, scorre come rullo in sottofondo, capace di attrarre la coppia sbandata, di certo impossibilitata a prendere in pugno un destino, a1n6rose2quale che sia. E si vede che il caso-caos regna, sin dal lancio delle monete dell’apertura, ove, per pura combinazione, esce fuori sempre la stessa faccia (la “testa”), fino ad un’incrinatura nella storia (ed esce allora “croce”) tramite la quale si entra in contatto con l’amletica contaminazione, rappresentata dalla compagnia degli attori che, montato un agile palco, dànno inizio ai drammi di corte, fatti di cappe ed ermellini falsi, di corone, di intrigo (all’italiana, secondo la moda elisabettiana) ed usurpazione.
Ma qui, in fondo, il sangue non scorre: Renzi si muove su un impianto squadrato, ove la svagatezza nasce dal calcolo, ove il quadretto curato richiederebbe a tratti una più fluida mano, ove anche il finale risulta modificato. “Nonostante l’implacabilità del titolo, non ho avuto cuore di farli morire”, dichiara il regista, che ha lavorato lungamente intorno a questo progetto (con una variante di opera-video con bambini al momento della gestazione), riproposto al Teatro Valle di Roma fino al 14 maggio.