
In questo You walk?, in scena a Bologna fino al 13 maggio e poi in tournée nel mondo, con repliche a Brighton, New York, Sydney, Amsterdam, e in altri importanti centri, il legame con l’Europa latina è proprio, ancora, la negritudine: lo sradicamento violento di intere popolazioni rapite dall’Africa e vendute nel nuovo mondo come schiavi da inglesi, spagnoli e portoghesi. Il titolo è tratto dal verso di un poema del premio Nobel Derek Walkot, che immagina un Achille nero che in sogno torna alla terra dei progenitori camminando attraverso il mare. “Where your mind was whole night?”, dove sei stato in sogno tutta la notte, gli chiede qualcuno al risveglio. La risposta è secca “Africa”, e così la replica: “Oh? You walk?”.

Il cemento drammaturgico è la musica, che ripercorre con salti a volte geniali una vicenda che parte dalle foreste, da suoni arcaici, vicini alla terra, all’acqua, agli alberi e agli animali, si accende di ritmi di danze medievali, delle volute di un gregoriano trascritto dalla grande tradizione musicale brasiliana, che arriva alla saudade dei conquistatori portoghesi con lo strazio del fado, musica di chi dallo scoglio materno si è proiettato negli oceani a far strazio e guerra per conquistare la terra. La musica si rende materia di parole e suoni di sofferenza nel ritmo dei canti dei forzati neri delle carceri del Texas, si riduce a un quartetto di Mozart appiattito a sonorità secche da riproduzione amplificata, a evocare la serialità di un mondo ormai spersonalizzato. Ma soprattutto si accende in tre pezzi di grande forza. Innanzitutto, alla fine della prima parte, un’operina in musica scritta da un gesuita italiano agli inizi del Settecento, dedicata alle popolazioni e destinata alle popolazioni indie del Paraguay, a quella che diventerà l’utopica repubblica dei gesuiti. Una musica didattica, per estirpare il paganesimo e
cristianizzare, che venne trasformata, fatta propria, adattata e diventò quasi inno di consistenza delle popolazioni autoctone. Nella seconda parte dello spettacolo grande rilievo assumono i due brani conclusivi, la registrazione di un concerto di John Cage violentemente contestato dal pubblico, che si inserisce sulla voce dell’autore, creando un conflitto fra artista che cerca nuove strade e spettatori adagiati nell’abitudine, e una ninna nanna del grande menestrello bahiano Dorival Caymmi.

La coreografia eseguita dai bravissimi membri della compagnia si basa su danze africane, insegnate dalla giapponese Toshiko Oiwa. Interpreta le suggestioni sonore con figurazioni che esplorano antiche posizioni. I corpi si fanno natura, bosco, cerchio magico, facendo emergere momenti collettivi dove urge la forza del rito per poi introdurre spezzature dell’insieme e del corpo singolo in momenti di più drammatica tensione. Il partire, il camminare, l’essere trasportati, l’andare, trasformati a volte in ombre, a volte leggeri, a volte pesanti, scandisce le diverse figurazioni. Uno o più solisti escono dal gruppo, creando una frattura, una solitudine, uno stridore. E il movimento rituale si rivolge spesso in meccanicità seriale, in minaccia di una modernità incombente. In questo disegno così preciso fanno capolino spezzoni riconoscibili di antiche danze europee, frammenti di capoeira brasiliana e al vostro cronista sembra persino di riconoscere momenti topici
di spettacoli del Living Theatre, come il grande cerchio iniziale con vocalizzi, o il cumulo finale di corpi, come nella peste di Misteries. Ogni momento appare però fin troppo levigato, adagiato a riprodurre la forte impressione sonora. Quasi un kitsch del politically correct, montaggio di visioni e brani di diversa provenienza accumulati in base alla loro bellezza e gradevolezza, pulitissimi, troppo danzati, senza inquietudini, in una cornice scenografica di trasparenti e brutti “pilastri” di velo a firma di Bjorn G. Amelan. Con luci (di Robert Wierzel) laccate, effettistiche, cariche di blu, rosa, arancione, bianco, leccate, compiaciute, pronte a stupire con effetti da salvaschermo di computer, cascate di puntolini che vorrebbero richiamare un cielo stellato, nebulose. Alla fine, un effetto complessivo da (raffinato) varietà televisivo del sabato sera.

I costumi, creati e realizzati da Alberto Gelli e dalle confezioni La Perla di Bologna, contribuiscono per l’appunto a dare l’idea di una confezione un po’ furba, che cerca il consenso di un pubblico midcult con un po’ di intelligenza, un po’ di impegno ma non troppo, senza asperità. E alla fine, fra gli applausi entusiasti, si va via con la sensazione di aver assistito a una sfilata di lingerie e di bei corpi, ben mossi, su una strepitosa colonna sonora, con qualche pennellata nobile di riflessione e di gradevole, troppo gradevole, “poeticità”.