Roma – <<E’ il 20 marzo del 1994. Ilaria Alpi, inviata del Tg3 e Miran Hrovatin, operatore televisivo, vengono uccisi in un agguato a Mogadiscio. Il duplice omicidio si presenta subito come una vera e propria esecuzione. Non ci fu errore. Si voleva uccidere!>>. Hanno un tono lapidario e non lasciano scampo a fraintendimenti di qualunque sorta le parole vergate sul programma di sala dello spettacolo Ilaria Alpi. Omicidio a Mogadiscio, scritto e diretto da Mario Tricamo. Parole schiette e dure che accolgono lo spettatore e non cessano di risuonare a mo’ di accusa durante l’intera messinscena, allestita dal 12 al 21 maggio al Teatro di Documenti di Roma sotto il caratteristico Monte dei Cocci del quartiere Testaccio.
Dopo Dc9 Itavia, il caso Ustica; S come strage: Piazza Fontana; Vita e morte di Aldo Moro, democristiano, l’interesse di Mario Tricamo si concentra ancora una volta su un capitolo tragico della recente storia italiana e, con l’impegno civile che contraddistingue la sua ricerca teatrale, ricostruisce le tappe salienti di quelle che devono essere considerate, senza ombra di dubbio, due morti efferate e affatto casuali. <<Quando si uccidono due giornalisti con un colpo alla testa>>- ha affermato Luciana Alpi nel corso della conferenza stampa che ha preceduto di qualche giorno lo spettacolo e dove sono intervenuti, insieme ai genitori di Ilaria, Mariangela Gritta Grainer (ex deputata del PDS e membro della Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla cooperazione), il regista e gli attori della compagnia Trousse – <<è un omicidio premeditato e non un omicidio di guerra. E quando c’è un omicidio premeditato, c’è un movente>>. <<Forse, anche involontariamente>> – continua la madre della giornalista – <<Ilaria aveva messo le mani su storie di mala politica, altrimenti non si spiegherebbero le misteriose sparizioni dei suoi block-notes, videocassette e macchina fotografica>>. Dopo il crudele massacro fino ad oggi, la verità sembra venire occultata con ogni mezzo possibile. Al progressivo dileguarsi degli oggetti personali dei due inviati, si aggiungono false testimonianze, prove inquinate, ipocrite manovre di depistaggio e una costante disattenzione degli apparati istituzionali ad accertare la reale dinamica dei fatti. <<Lo stesso processo di Ilaria>> – incalza Giorgio Alpi – <<è passato sotto gamba, riscuotendo poco interesse anche presso gli organi d’informazione. Eppure, noi dobbiamo sapere chi ha sparato, chi ha dato l’ordine di farlo e perché. Abbiamo il diritto di conoscere la verità come genitori e come cittadini>>.
Lo spettacolo di Mario Tricamo, senza pretendere di sostituirsi alle inchieste ancora in atto della magistratura, dà “forma drammaturgica” agli estratti del processo, agli articoli apparsi sui giornali all’indomani dell’eccidio, al volume L’esecuzione. Inchiesta sull’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (il libro, pubblicato dalle Edizioni Kaos, è stato scritto da Luciana e Giorgio Alpi in collaborazione con Maurizio Torrealta e Mariangela Gritta Gramer), con il risultato di avviare un complesso procedimento di decostruzione e ricomposizione del “documento” che rivive sulla scena esemplificato nelle parole degli attori. La finzione ha così il potere di stimolare una seria riflessione sulla realtà e il teatro diventa uno strumento necessario per mantenere viva la memoria degli spettatori. <<L’omicidio di Ilaria è una ferita profonda che non si è ancora rimarginata>> – dichiara Mario Tricamo – <<un lutto troppo amaro per finire nel dimenticatoio. A 32 anni non si può essere uccisi mentre si sta cercando di svolgere il proprio lavoro onestamente soltanto perché ci si scontra con i loschi giochi di gruppi affaristici. Noi crediamo che il teatro italiano abbia l’obbligo di parlare di questo. Abbia l’obbligo di interessarsi alla storia (tradita) del nostro Paese>>. Per l’autore e regista siciliano, fine conoscitore di Artaud, Piscator, Brecht e delle avanguardie storiche del Novecento, il teatro deve far pensare, smascherare le menzogne politiche, abbattere il muro di gomma della sopraffazione con il fine ultimo di spingere il pubblico verso una sana presa di coscienza. L’intera messinscena, infatti, non lascia scampo agli spettatori, chiamati a seguire gli interpreti attraverso un percorso itinerante tra le sale del Teatro di Documenti, dove via via prendono corpo gli episodi salienti dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a cominciare dal momento della tragedia. Una tragedia evocata in apertura dello spettacolo da un metallico e ripetuto squillo telefonico che interrompe di colpo i brevi a solo degli attori Sergio Basile, Francesco De Angelis, Giorgio Granito, Cinzia Mascoli e Sebastiano Nardone, sparsi tra il pubblico per introdurre le situazioni di cui si andrà a parlare. Lo slittamento dal ruolo dell’attore-personaggio a quello di cittadino-persona, desideroso di conoscere i mandanti impuniti della strage di Mogadiscio, e le confessioni, appena sussurrate, a tu per tu con lo spettatore infrangono il meccanismo dell’illusione e frantumano le unità spazio-temporali della rappresentazione in cui si intrecciano costantemente ricordi e testimonianze, luoghi vicini e lontani, passato e presente. A dare continuità all’azione un solo personaggio: Ilaria Alpi (Caterina Casini) che funge da “io epico” e guida lo svolgersi della vicenda. Quasi tornasse a materializzarsi nello spazio disadorno del Teatro di Documenti, coraggiosa e temeraria come un’Antigone moderna, ella interviene, puntualizza, dissente, man mano che gli altri protagonisti vestono i panni di coloro i quali la stessa Alpi conobbe, incontrò e intervistò prima della sua morte. Per “quadri successivi” e con un ritmo serrato – a tratti sottolineato dalla musica dal vivo (le musiche originali sono di Loredana Palumbo) – si contrasta l’ipotesi, sostenuta dall’autista della scorta e smentita dall’autopsia, dell’unica e accidentale pallottola; si ironizza sulle deposizioni dei generali Fulvio Vezzalini e Carmine Fiore che fanno risalire l’eccidio a un paradossale episodio di microcriminalità o a un infondato atto terroristico; si rivolgono pesanti accuse ai servizi segreti italiani, a politici e a uomini d’affari del nostro Paese, coinvolti nel traffico internazionale di armi; si allude all’enigmatica scomparsa dei quaderni di Ilaria e a importanti intercettazioni telefoniche escluse dagli atti del processo. E, mentre sullo sfondo resta l’ombra dell’ingente dispendio di denaro ufficialmente destinato agli “aiuti umanitari” in Somalia, l’indulgere di Mario Tricamo sul “documento” non si esaurisce questa volta nel suo abituale “teatro d’inchiesta”. Alla lettura di deposizioni, interrogatori e testimonianze, riadattati con dovizia di particolari, si alternano dialoghi e monologhi di forte impatto teatrale, come la conversazione fra il generale Fiore (Sergio Basile) e il senatore Falqui (Giorgio Granito), tutta giocata sul filo dell’umorismo, l’incontro di Ilaria Alpi con il sultano di Bosaso (Sergio Basile) in cui si dà spessore scenico al personaggio della giornalista e, soprattutto, l’intenso monologo pronunciato nel finale da Caterina Casini che conferma l’audace fisionomia della protagonista. Da sola, al centro dello spazio scenico, con simbolici fogli che cadono dall’alto e riempiono il pavimento della sala (sono le inutili carte del processo o il ricordo della professione di Ilaria?), ella inveisce contro i suoi assassini, li accusa e li commisera senza rassicurarli. <<Vi compiango per ciò che vedrete, ma io vado avanti!>>, grida rivolta al pubblico al quale l’ultimo pugno nello stomaco arriva dalla voce severa di un Coro, sprezzante dell’omertosa realtà italiana.