Roma – Depauperare, sottrarre, prosciugare. I primi due gruppi visti per Maggio cercando i teatri, la rassegna Eti allestita in vari spazi romani (ma predomina il Valle, già nel corso della stagione “regolare” luogo di ospitalità per realtà spesse volte non troppo note ad un pubblico tradizionalista), sembrano muoversi sui binari di un moto verso l’essenzialità. Così è stato per L’impasto – comunità teatrale nomade, che il 18 e 19 maggio ha presentato Trionfo Anonimo; stessa impressione, almeno al principio, almeno sulla carta, per Egumteatro, con Gamblet, ovvero l’archivio delle forme, ancora al Valle il 22 e 23 maggio.
Quelli dell’Impasto hanno, come insieme che produce spettacoli, cinque anni di vita: una mescitanza di linguaggi come programma, una produzione come Trionfo Anonimo che, si apprende dal curato libretto di sala, è nata “a Cursi, in Salento, nei giorni torridi e struggenti di un’ennesima guerra adriatica”, crescendo poi a Rovereto, divenendo “grande” a Milano, “in una piccola sala di quartiere da dove sono passati Grotowski, Kantor e il Living”. Tre numi tutelari che non si sa se siano qui invocati come divinità protettive e beneaguranti: di certo siamo di fronte, con Trionfo Anonimo, ad uno spettacolo di professionalità piena, non ancora pervasa da un sapore stantio, né minimamente vacillante in esitazioni o visibili ingenuità. Ciò che ci viene presentato è una specie di musical, ma, in omaggio all’impalcatura dell’essiccazione, dell’essenzialità, ridotto all’osso. L’unico strumento, che peraltro è suonato dal vivo, è un tamburo (sfiancato, il percussionista, che si presenta letteralmente in mutande, cadrà alla fine sulle tavole di scena); il resto della trama musicale incessante come una spirale è dato da linee melodiche, cori a bocca chiusa, avventure vocali garbatamente riuscite in territori sincopati, “rappati”. Con una storia in mezzo, come ogni musical che tale voglia essere: una giovane prega davanti ad un poster di un cantante pop, un poco slavato, ordinariamente piacente. Ma ecco che il manifesto si anima e, fra i trasalimenti di lei, diventa la guida spirituale della fanciulla, che viene genericamente invitata ad andarsene per il mondo. Lei non troverà niente di meglio da fare che pescarsi un marito che si nasconde in un palco del teatro: lui è un onesto lavoratore “padano” in giacca e cravatta, che arriverà presto a stancarla. Ma ecco il manifesto animato della provvidenza che dispiega una nuova risoluzione salvifica: andatevene per il mondo, e magari ritrovatevi o sperdetevi, o mischiatevi agli altri. Il tutto è palesemente ironico, lineare, particolarmente ben tornito, praticamente perfetto. Un segno che i cosiddetti gruppi “emergenti” mirano ad un discorso di assolutezza formale che non scende a compromessi. Identica poi l’impressione nel più complesso, monumentale, quasi, Gamblet di Egumteatro. Se quelli dell’Impasto inscheletriscono moduli noti e offrono ricami inaspettati, egualmente Egum si getta in un opera di raccolta di rifiuti da cassonetto, si impegna a sottrarre, e poi offre un perfetto impianto di cose, luci e attori con bravura e scioltezza consumatissime. Si parte dall’Amleto (ormai è costume immergere le mani in profondità nell’infinito calderone shakespeariano) e se ne tira fuori qualcosa ambientato in un’azienda veneto–lombarda dei primi del Novecento. La reggia danese è divenuta un “fabbrichetta”, il re usurpatore è una sorta di neodirigente che vuole ottimizzare la produzione, mentre la regina, che si presenta all’inizio come una “divina” decaduta alla Testori, ben presto metamorfizza la di lei presentazione scivolando nella figura della vedova che non sa più come far quadrare i conti e pagare le tasse. Giusto che si risposi con un marito semifascistoide che sa tenere il bastone in mano e fa rigare dritti gli ipotetici operai, mentre intanto Amleto, che irrompe a tratti, è visto come uno scansafatiche, un rivoluzionario, un sindacalista, un “rompiballe”. Il castello brumoso diviene un capannone di sfruttamento, le Ofelie del caso vogliono cercar marito, ma con pochi grilli per la testa, innanzitutto.
Se tale è la trama, peraltro non la solita operazione su Shakespeare letto quale pretesto, di livello eccellente appare la realizzazione, avvolta in luci e ombre di magistrale definizione, in una scena da arte povera e casual che però mai comunica impressione di miseria: anzi, ci troviamo faccia a faccia con un prodotto di quasi estenuata ricchezza scenica, senza neppure un capello fuori posto. Gruppi emergenti? Forse gruppi poco noti: perché nei casi visionati la ricerca della rifinitura diviene standard naturale, aprioristico, quale che sia l’ispirazione di partenza che, per Egumteatro, è, come già detto l’Amleto. E partono da Shakespeare anche Fanny & Alexander, ormai ensemble culto di un altro tipo di sperimentazione, in cartellone al Valle il 25 e 26 maggio con Romeo e Giulietta – Et Ultra. Le tinte velate di Egumteatro, cedono il posto, in questa ultima realizzazione di Fanny & Alexander, ad una mano densa di nero pece, solcata da bagliori, satura di attori–voce che inseguono la perfezione della tecnologia acustica e strizzano l’occhio al grande inseminatore Carmelo Bene.