a1n11mela1Roma – L’amore delle tre melarance è l’ultimo frutto maturato all’interno del Laboratorio integrato “Piero Gabrielli”. Un luogo che da circa vent’anni, con alterne fortune, alimenta nei giovani, prima ancora che l’amore per il teatro, la capacità di stare insieme accettando le diversità e i disagi di ciascuno. E anzi proprio da questo sembra trarre la sua forza.
Lo spettacolo, prodotto dal Teatro di Roma e presentato per cinque giorni (dall’1 al 5 giugno) al Teatro Argentina, con la regia di Roberto Gandini, ha ripetuto anche quest’anno quella sorta di miracolo che il teatro contribuisce a compiere: ragazzi con e senza problemi riuniti sulla scena, ciascuno con le proprie diversità e i propri limiti.
Riscritta da Valerio Marangon, la favola di Carlo Gozzi si apre su Campo de Fiori – la famosa piazza romana dove nel centro troneggia la nera statua di Giordano Bruno, che proprio in questo luogo, nel 1600 condannato dalla Chiesa, ha trovato la morte sul rogo. Un incipit che vuole essere, forse, un omaggio al poco ricordato Bruno, che qui viene riproposto stanco del suo statuario silenzio, mentre nottetempo inizia a parlare con un giovane afflitto da pene d’amore, raccontandogli la storia che gli spettatori vedranno.
E la storia è quella del triste principe Tartaglia che dopo aver riso per l’arte comica di Truffaldino viene condannato dalla fata Morgana ad innamorarsi perdutamente di tre melarance, una delle quali si rivelerà in tutto il suo splendore di principessa. Il lieto fine, ovviamente, coincide con le principesche nozze, dopo varie vicissitudini, scambi di persona e conclusive agnizioni, e la più quotidiana riappacificazione con l’amata del giovane finito a Campo de Fiori.
a1n11mela2Nelle mani di Gandini, al quale dal 1995 è stato affidato il coordinamento artistico del progetto, la favola si colora di motivi contemporanei, anche nei costumi forgiati sull’attuale moda giovanile e nelle musiche (eseguite dal vivo) impostate su ritmi rappati. Ma quello che emerge sopra ogni altro aspetto è la qualità del lavoro, nel senso di serietà nella costruzione della messinscena nella quale ogni elemento figura al posto prestabilito in mesi di prove costanti (il laboratorio dalla stagione ’99-’00, si tiene nella nuova sede di Trastevere, ospite di una scuola media statale), compreso l’apparato scenografico che viene manovrato dagli attori.
Quindi al di là della forma, di un gusto giocoso e brillante che potrebbe deludere i più vogliosi di intellettualismi scenici, quello che conta in questo spettacolo è la capacità dei ragazzi di assumersi personalmente e fisicamente le responsabilità e il rispetto, per se stessi e per i compagni di avventura. Una lezione che prima ancora che essere di teatro, è una lezione di vita. (M.S.)