Roma – Sono non pochi i motivi di interesse intorno allo scespiriano Riccardo III messo in scena da Claudio Morganti, prima al veneziano Piccolo Arsenale (ha inaugurato la stagione 2000 della Biennale), in seguito al Teatro India di Roma fino al 18 giugno (passerà l’anno prossimo, in primavera, al Fabbricone di Prato). Innanzitutto, Morganti non è certo nuovo all’ingombrante figura: in sei anni ha prodotto vari studi intorno al personaggio demone di Shakespeare, girandovi intorno, trapassandolo, indossandolo, anche rigirandolo; intelligentemente, ma anche instabilmente, metabolizzandolo. Ha sfiorato il grandattorismo, il protagonismo, eppure non si può dire con fermezza che questo Riccardo III si esaurisca con l’offerta attoriale del solo Morganti, ché il tutto vibra felicemente di una sua propria organizzazione, a cominciare dalla presenza, evidente quando si entra in sala, di due batterie poste ai lati. Né allora ci si stupirà quando il regista-attore (o l’inverso) racconta di annoverare tra i suoi maestri seminali i Led Zeppelin, dunque la band hard rock per eccellenza; come ci si muove sulla stessa linea di un sincretismo quasi pop, molto lieve, quando, nel programma di sala, Morganti dichiara che <<fare Riccardo in teatro è un po’ come fare Dracula al cinema>>.
Appare artatamente sciatto e un poco imbestialito, Riccardo-Morganti, all’inizio, davanti al tavolo (che poi diverrà feretro, podio e quant’altro) – su quest’ultimo un boccale di birra giunto alla conclusione – mentre presenta se stesso e presenta al contempo la fabula della teoria infinita di morti e nobildonne sedotte che Shakespeare inanella nel suo celebre testo. Che voglia porsi, egli stesso, come segno forte, trainante, è cosa palese ma, come si accennava, la scena non viene saturata dal solo espandersi di lui; il resto della compagnia (fra cui si distinguono due “classici” attori di Barberio Corsetti, Milena Costanzo e Roberto Rustioni) agisce nella consapevolezza piena. Che è anche consapevolezza che questo non è il Riccardo III più limpido e squadrato che sia mai stato concepito; è anzi opera che denuncia il fatto che vari studi siano venuti prima, e che una certa struttura più libera che collagista venga messa in campo, magari affidandosi, per stabilire punti fissi, alle figure dell’arredo scenico, come quel cerchio a terra che contiene una parte di illuminazione, talvolta tagliato dalla sovrapposizione del tavolo multifunzionale. Mentre intanto i tamburi percossi compongono il contrappunto dal vivo e corde tese ad arco, poi sfregate, introducono un’altra macchia sonora, in un insieme che resta, con controllo notevolissimo, straordinariamente parco. Più teatro d’attore o di attori che di cose, alla lontana dall’effetto speciale, ma prossimo alla parola, e altrettanto parcamente lontano da qualsiasi trombonismo vecchia scuola. Sì, è qui il bello della cosa, dell’impresa che cresce positivamente nel ricordo, e che praticamente non ha niente da farsi perdonare, sempre graziata da una freschezza che si avverte come casual a tratti, né mai bolsa o, dalla parte opposta, intellettualmente inscheletrita e priva di pezze d’appoggio. Restando, specie nella chiusura, ben gradita e ritagliata, la memoria dell’ultimo studio prima di questa versione (che non sembra comunque recare il marchio di ciò che è stabilito per sempre): ci si riferisce nel caso alle Regine, episodio veneziano del settembre dello scorso anno. Qui, nel finale, ci viene offerta una messa in vista delle “donne” di Riccardo, prima della morte di tutti, che finiscono, con colpo d’occhio netto e riuscito, stesi a terra. Ma non è detto che questo approdo, che tanto ha il sapore del work in progress, si esaurisca al calar delle luci.