

E già il primo attrito è musicale, perché alla sublime musica seicentesca eseguita dall’Ensemble Concerto di Roberto Gini e dai cantanti Lavinia Bertotti, Mario Cecchetti, Vincenzo Di Donato, Salvo Vitale, si contrappone la partitura contemporanea del compositore americano Scott Gibbons (che con la Raffaello aveva già lavorato in Genesi), fatta di campionature e materiali naturalistici, tutti passati al trattamento elettronico.
Il combattimento centrale è però quello tra l’eroe cristiano e la eroina mussulmana, nemici dichiarati e amanti ignari, in lotta sotto le mura di Gerusalemme, che velari di tulle accendono di colori rosati. Lei prima di morire, diverrà altra da sé, facendosi cristiana. Lui non saprà mai perdonarsi l’assalto mortale. Saranno in ogni caso i loro corpi a confliggere, tra le passioni interiori e la fisiologia delle macchine (“celibi”,
anche se stavolta si tratta di attrezzeria medicale e sanitaria) che sono da sempre la parte viva e caratterizzante del lavoro di Romeo Castellucci e dei suoi compagni.

I corpi degli attori, che assieme a oggetti e manichini, “doppiano” i cantanti sulla scena, non hanno stavolta il segno dell’handicap. Tanto più impressiona allora la loro spoliazione, o per esempio il gesto estremo con cui Clorinda estrae dall’ultima biancheria un assorbente macchiato di sangue mestruale, mentre il paesaggio si anima di una pompa per dialisi, una turbina ansimante da 180 cavalli, una rana elettrica la cui bocca bullicante inghiotte la parola indurita dalla pasta di alginato che usano i dentisti per i calchi.

La vita è scontro radicale e ha un premio solo in se stessa, sembrano dire i Raffaello, nei momenti in cui il canto prevale, e la melodia che pure narra di pene e dolori, rasserena per un momento l’orecchio e il cuore dello spettatore.