
E lo spettacolo (o l’evento, o l’intervento, o lo studio, o il work in progress) viene a completare quella serie di produzioni comprese sotto la dicitura Sette spettacoli per un nuovo teatro italiano per il 2000, scaletta di realizzazioni di ispirazione giubilare che ha deluso un poco tutti, nonostante le selezioni fossero state effettuate da un consesso di studiosi e intellettuali di fama: sia come sia, il settimo spettacolo, quello dei Motus, appunto, ha risollevato le opache sorti di un’iniziativa globalmente abborracciata e spesse volte pretenziosa. E Visio Gloriosa è un lavoro meditato, ove la meditazione viene a porsi, proprio perché siamo all’inizio di quello che la compagnia stessa definisce come un lavoro che qui non si fermerà, coi caratteri di un approccio fresco, non ancora impastato da formalismi (che sarebbe bene comunque non facessero mai la loro comparsa), affascinantemente anarchico in una struttura che non vuole andare dalla a alla zeta, ma definirsi piuttosto tramata in una circolarità senza inizio e senza fine. Poiché l’esperienza mistica, estatica, non vuole avere inizio e fine, poiché essa è assoluta e nutrita del dispiegarsi di numerose se non infinite manifestazioni, poiché infine, è esperienza liberatoria e anarchica, connubio di patimento, piacere, erotismo.
E’ quello che i nostri hanno cercato di comunicare, ponendo sul palcoscenico del Teatro Argentina una piccola foresta di piante, quasi a simulare una selva (più o meno oscura), addobbando angoli e sfondi con fontane riversanti acque (ha contribuito alla realizzazione delle scene anche Stephan Duve, in genere fedele ingegnere “metallurgico” della Raffaello Sanzio), disseminando nello spazio lastre trasparenti (un po’ dell’eredità di Catrame che ritorna), casse acustiche, voci vaganti e microfonate, macchie sonore mixate a perfezione, com’è d’abitudine per la compagnia che, sotto questo punto di vista, fa il paio con gli altrettanto tecnologizzati Fanny & Alexander.

Le parole, le frasi dell’estasi, derivano dalle testimonianze scritte che furono ricavate dalle visoni di Maria Maddalena de’ Pazzi, una mistica di fine Cinquecento, ma anche da quelle di Santa Caterina da Siena e dalle poesie di Juan De La Cruz: più che a sentori medievali si pensa a qualche lussureggiante background barocco, senza che però vi sia una veicolazione a senso unico, poiché qui metafora e suo disvelamento partecipano di un grande omogeneo gesto che è in definitiva l’offerta scenica stessa dei Motus. Con i suoi attori giovani a torso nudo o spesso nudi, magari suggerenti adamiticità da Eden scomparso, giocando con le trasparenze suggerite dalle acque, magari offrendo corpo a corpo coreograficamente accennati senza che la violenza o il martirio carnale prendano mai il sopravvento. I Motus non rimestano nel dark come i loro fratelli maggiori della Raffaello Sanzio: i loro spettacoli non sono tritacarne o monumenti alla bellezza della mostruosità. Qui, in Visio Gloriosa, si respira tutto sommato un’aria tersa, dolorosa anche (si pensa a certe percezioni del Teatro Valdoca), ma non estranea a un germe liberatorio, di speranza dietro l’angolo. Anche quando le piante vengono rovesciate sul palcoscenico e un clima di vaga disfatta serpeggia, mentre gli attori (fra cui due elementi di Belgrado) si siedono sui rossi velluti della sala imponente. Uscendo si avverte che la lotta dello spirito e le esplosive potenzialità che essa implica, sono destinate a prendere corpo di nuovo, e questo grazie alla forza della macchina teatrale.