GIBELLINA (TP) – Il silenzio dei vivi. Il silenzio dei morti. Il silenzio che segue la catastrofe. Anche il silenzio ha un suono, cantavano Simon & Garfunkel. Pippo Delbono e la sua compagnia teatrale lo hanno ascoltato sulle rovine della vecchia Gibellina, distrutta nel ’68 dal terremoto che sbriciolò la Sicilia occidentale.
Da quasi vent’anni il palcoscenico di sabbia delle Orestiadi si apre davanti al cretto ideato da Alberto Burri, un vasto lenzuolo di cemento bianco con cui l’artista ha coperto i ruderi dell’antico paese. Più che un festival o una manifestazione estiva, le Orestiadi di Gibellina sono il teatro di una memoria che rinnova ogni anno la cicatrice lasciata da quella forza naturale e smisurata. Non più dolorosa forse, ma carica del mistero degli eventi grandi e sacri.
Il silenzio di Pippo Delbono è uno spettacolo sul terremoto. Ma non è uno spettacolo di macerie. Anzi. Dopo che il boato iniziale degli altoparlanti si è spento nel buio, la cronaca della distruzione lascia spazio alla vita che torna a crescere su questa sabbia e buca il silenzio dello sgomento con le sue musiche. Come i fiori selvatici, quando si fanno largo tra i mattoni e le pietre divelte. E’ il suono lontano dei Pink Floyd, che dice Wish you were here, vorrei che tu fossi qui, mentre un forestiero interroga il paese morto. C’è qualcuno? La domanda di Nelson Lariccia riporta a Gibellina lo spaesamento di chi sarà sempre forestiero ai luoghi. Riconosciuta la sua figura alta e allampanata, riconosceremo presto le altre anime irregolari di Barboni, di Guerra, del più recente Esodo. La compagnia Delbono quasi al completo, allargata stavolta a quanti chiedono, magari per favore, e anche dormendo in tenda, di aggiungersi al gruppo meno istituzionale del teatro italiano. Dove ogni attore si porta dietro il suo pezzo di verità, e un altro ne trova qui, di fronte al sedimento di un disastro lontano di cui non si sente che l’eco.
Perché ora che lo spettacolo decolla e la voce di Pippo infila i versi di Ungaretti tra le profezie di Ezechiele, l’eco è una musica del tempo. Danio Manfedini dal vivo canta I giardini di marzo (ma sarà poi straordinario nel Mare d’inverno), Dalida confessa Je veux mourir sur scène, De Andrè balla con gli impiccati di Tutti morimmo a stento. E convocati in scena, il contrabbasso e il violoncello eseguono Ciaikovskij per il ragazzino arabo dal piede ferito che insegue una palla, trova un compagno e gioca con lui. La ragazza triste serve ordinatamente un pasto all’uomo che non sa parlare. La fila scura dei maschi e delle femmine si ricompone in un girotondo di coppie. <<Quando sei qui fai silenzio, quando te ne andrai da qui non fare silenzio>> sta scritto a Buchenwald e Pippo ripete prima di urlare dentro il microfono la disperata vitalità della precedente Rabbia. <<Dimmi che mi ami, dimmi che mi ami, dimmi che mi amerai per sempre>>. Anche se la donna è riversa a terra, e al suo fianco la carrozzina è rovesciata.
In questo suo teatro speciale, che non conosce la formula della finzione, né quella del personaggio, Delbono compone figure come se stesse dettando una poesia. Nessuna premeditazione: i numeri da circo del piccoletto Bobò, la fisionomia morbida di Gianluca, l’elettricità di Mr. Puma, l’esilità di Lucia, le belle lunghe gambe femminili di Gustavo, la voce di Pepe…
Tra i dieci titoli di una compagnia da amare prima ancora di ogni giudizio, Il silenzio è già ora, al debutto, uno degli spettacoli più belli. Per la tristezza serena che deflagra in un carosello di visioni, in un circo Barnum di majorettes, bambole, sante, motociclette, canzoni, banda e maestro in testa. E si asciuga pochi istanti dopo nella malinconia di clown terremotati nel proprio cuore. <<Tutti stiamo morendo>>, grida la ragazza Lucia. <<Ogni istante che passa ci avviciniamo di più alla morte>>. E il filo delle lampadine colorate serpeggia lungo la collina del paese distrutto, e segna il margine della cicatrice.
Oltre a Il silenzio di Pippo Delbono, l’edizione 2000 delle Orestiadi di Gibellina (con la direzione artistica di Gianfranco Capitta) comprendeva Decimo anno di Andrea De Rosa e Francesco Saponaro, tratto dall’Agamennone di Eschilo, e Prometheus Concert di Ida Bassignano e Luigi Cinque, partitura plurilingue che ha aggiunto il canto di due cori alle parole di Massimo Popolizio e Laura Marinoni