
Continua l’avventura europea, emiliano romagnola di Enrique Vargas, straordinario inventore di drammaturgie dei sensi. Colombiano sessantenne, un passato di drammaturgo e regista al Teatro La Mama e in altri santuari dell’avanguardia newyorkese, un presente dedicato a tradurre in fascinosi percorsi i grandi miti, gli archetipi più profondi. Collabora ormai da alcuni anni con Emilia Romagna Teatro: a Modena ha riunito un affiatato gruppo di giovani collaboratori con i quali ha prodotto diversi “spettacoli dei sensi”. Fra tutti spicca Oracoli, realizzato nel 1997, un labirinto per uno spettatore alla volta, guidato dalle carte dei tarocchi attraverso sentieri, stanze, budelli bui, apparizioni, illusioni, spiazzamenti della visione e della sensazione.

All’ingresso è nero, nerissimo. Senti il vicino, imbarazzato come te. Risatine, commenti a mezza voce. Ci si tocca, per capire di non essere rimasti soli, con pudore, con imbarazzo. Uno spiraglio. Un campo di canne confitte nella sabbia. Un gigantesco shangai. Lontananze nebbiose. Alcune guide ci prelevano a gruppetti. Intorno a una candela ci consegnano queste parole: “Molto tempo fa donne e uomini si incontravano sotto un albero in riva a un grande fiume per bere, cantare e ballare. Le loro danze erano così allegre che il fiume stesso ballava con loro. Essi avevano il segreto: come scoprire l’anima che abitava le loro bevande…”. Ma le generazioni passano. Si balla e si canta sempre di meno. Si sa che un segreto c’è, ancora, anche se non si ricorda bene qual è. Poi si dimentica.
Poi noi entriamo in un altro buio. Le reazioni sono diverse. Veli e stoffe ci bloccano e ci accarezzano. Avanti piano. Sentire il vicino. Sfiorare. Ed eccoci in un accampamento: tende trasparenti intorno a tini, una fiera sudamericana che sembra uscita da un film di Fellini sceneggiato da Gabriel Garcia Marquez. Il juke-box a voce: un acino d’uva e una bocca allusiva, ironica ed erotica, canta per te. Un ombrello giostra d’uva, un teatrino portatile, una pedana che gira, una casa rosa per soli uomini che escono disfatti, seminudi, clown ciclisti, donne cannone…Danze, nelle quali si buttano gli spettatori meno riluttanti. In questa fiera si sta giocando una partita alta: rompere gli schermi della distanza degli spettatori, attirare i corpi di chi guarda dentro nell’evento. E’ più difficile qui: sono gruppo, non stanno da soli di fronte all’attore come in Oracoli. Sono pubblico. Possono diventare “comunità”?

Saremo lanciati in una nebbia densa, mascherati. Come in un paesano Eyes wide shut. Assisteremo al rito, all’apparizione di un’ombra taurina che si ingrandisce e ci ingloba, per poi ritornare piccola e tramutarsi in processione con uno stendardo dionisiaco ridente, una musica e un ritmo violenti, una festa dura o una specie di funerale. E qui andiamo verso il finale, quando fiera, gioco con una figura mascherata da toro, “comunione” con i boccali di vino, nani e giganti, evocano la festa, la comunità desiderata. Sognata, lontana in questa lacerazione di nebbia. Hai la possibilità di gettarti nella danze o di stare un poco discosto, voyeur come sempre. Il vino è realtà, la semplicità del gustare, toccare, sentire, odorare, vedere… Ma il vino, Dioniso, la terra sono anche una memoria, un segreto che non hai più e che ti sforzi di rammentare.
Ti sei allontanato per più di un’ora dal tuo mondo, forse troppo, forse i segni accumulati dalla scatenata troupe multinazionale di Vargas sono tutti troppo arcaici e non avrebbe guastato qualche rottura più dolente e ironica verso la nostra alienazione quotidiana. Ma ora ti guardi: stringi il terriccio nella mano ed esci. Senti ancora l’eco di quel canto finale di tabaccaie del Salento. Fuori c’è l’estate. Rimane quella sospensione accumulata dentro, una certa lancinante malinconia e nostalgia. Una sensazione di terra umida, fresca.