
A Davide Iodice, attivo nella compagnia Libera mente, una delle realtà più feconde nel panorama teatrale nazionale, abbiamo chiesto di raccontare l’avvio di questo nuovo percorso di ricerca.
Come la sceneggiata, il circo è un’arte morente. Credo che qualcosa di interessante avvenga quando le cose stanno sul punto di finire. Intanto, è interessante proprio l’ostinazione a vivere.
In questi ultimi mesi stiamo assistendo ad un’esplosione di circhi, come non si era ancora vista in Italia. Per esempio, a Brescia si è svolto anche il primo festival dedicato a queste arti. Esiste forse il timore che esse possano scomparire per sempre. Questo tuo progetto ha lo scopo di recuperare l’arte circense?
Non è una questione di recupero. La questione è spostarsi da un posto all’altro. E sono tutti posti che ripercorri, nel senso che sono già noti. Il circo è una cosa così profonda – anche se sembra banale dirlo – che comunque nei nostri spettacoli c’è sempre. Questa attitudine allo spazio circolare con il pubblico intorno. Allo spettacolo sgranato come la festa, come un evento che si fa proprio in quel momento. Quest’attitudine naturalmente c’è sempre stata. Ora, è venuto il momento di citare questa cosa. Anche per parlare di questa precarietà nostra, questa marginalità. Per dargli una forma: quella del tendone.
Stai dicendo che la vostra stanzialità a Napoli è resa impossibile dalla mancanza di un vostro spazio?
Infatti. Abbiamo avuto uno spazio fino a quando ho fatto la direzione artistica del Teatro Nuovo.
Personalmente il circo mi ha sempre messo una grande tristezza, anche quando trionfa lo splendore e la magnificenza. I piccoli circhi familiari, poi, mi gettano nella disperazione. Lo stesso effetto che mi possono fare le immagini di Giulietta Masina ne La strada di Fellini.
E’ proprio questa angoscia che trasmette il piccolo circo la dimensione che io cerco.
Ma perché il circo trasmette questa angoscia?
Anche questa è una banalità, ma il circo ha molto a che fare con la morte. E’ freddamente legato alla morte, alla sopravvivenza, allo stento. Il circo è un’arte di stenti. Se vai a vedere come fanno quelli a sopravvivere al trapezio, al leone e soprattutto alla fame. Uno dei motivi dell’angoscia penso che sia perché è intimamente legato alla sopravvivenza.
E’ un messaggio che arriva anche quando non hai razionalizzato la morte. Da bambino.
Il circo è esattamente come il mondo. Stai sotto quella cupola che ha delle strutture portanti. E’ come il Globe, che non a caso si chiamava Globe e non a caso gli elisabettiani parlavano di teatro del mondo e l’analogia era tra il palco e la terra e il cielo si chiamava cielo. Inoltre non a caso la vita è un recita. Tutto questo nel circo è crudo, nel senso di non cotto, di non preparato. Buttato nella povere, nella segatura. C’è una grande violenza nel circo. Nella segatura c’è impastato il sangue di chi ferisce, ci sono gli umori. E’ la forma archetipa, è la copertura dello spazio aperto.
Come si è formato il gruppo laboratoriale di Volterra?
Hanno risposto a una sorta di chiamata, non abbiamo fatto proprio una selezione, anche se per problemi tecnici abbiamo formato un gruppo di dieci persone più i ragazzi di Libera mente. Nella chiamata abbiamo scritto che tipo di artisti avremmo voluto incontrare: acrobati dell’esistenza, attori non protagonisti, ecc. Tra gli altri ha risposto una ragazza che fa la regista e studia trapezio a Londra, un ragazzo scappato da un altro provino, che lavora in strada. Da questa prima fase crediamo possano uscire almeno due persone con le quali mi piacerebbe continuare a lavorare.
Quale metodo di lavoro stai seguendo?
Sto lavorando su due livelli, da un lato sulla formazione di un circo autonomo, cercando di individuare le persone come se stessimo componendo la compagnia, dall’altro quello di cercare una famiglia già costituita con un suo repertorio e un suo tendone.
E hai pensato agli Ardizzone – che si pronuncia anche alla francese. Come ideatore del progetto e regista dello spettacolo che dovrebbe uscire da questo incontro come pensi di poterti inserire nel loro lavoro e creare qualcosa con questi artisti?
Io sono uno perennemente in crisi, nel senso che quotidianamente mi interrogo su quello che faccio. Una crisi rispetto al senso e quindi cerco territori nei quali verificare se questa mia instabilità, questo mio essere in un terreno di smottamenti (gli spettacoli che ho fatto fino ad oggi sono uno diverso dall’altro), proprio in quei terreni estremamente dissestati riesce a trovare qualcosa di significativo. Non penso per spettacoli. Quindi non penso ad uno spettacolo con il circo o sul circo. Penso ad un’esperienza, a viaggio in un territorio. Così come è l’esperienza che sto facendo ancora con i vecchi attori della sceneggiata. L’idea sulla quale gira tutto è la ricerca di un territorio dove poter realizzare un’arte sensata, che ora si estende al nodo drammatico dei Giganti della montagna.
E come li state approcciando?
Stiamo lavorando sulla struttura dei Giganti, ma come domanda. Il circo è la villa della scalogna, questo mondo galleggiante, violento, nudo. Il circo è un vuoto, come l’interno della villa (nei Giganti ndr) è un vuoto.
Nella pratica laboratoriale cosa avviene?
Stiamo lavorando su degli autoritratti. Sto cercando capire la natura delle persone. Ognuno dei ragazzi compone un autoritratto scenico. Per cercare di capire se in questo primo manipolo di persone ci sono degli scalognati e dei giganti. Per il momento mi pare che ci siano almeno un paio di veri scalognati.
Domanda pirandelliana: come fai capire se l’autoritratto corrisponde a quello che sono “veramente” e non a quello che rappresentano di sé stessi?
L’autoritratto per problemi di interpretazione ti dice che la realtà non esiste. L’autoritratto può essere come io mi vedo o ciò che io voglio farti vedere in questo momento. Quello che è evidente e su cui non si può barare è che tipo di materiale usi per farlo. Io posso ritrarmi vestito da Napoleone, mentre non sono un Napoleone. La verità però è che faccio il mio autoritratto a carboncino, a olio o di terra, in quella scelta del linguaggio c’è la natura e un occhio attento riesce a coglierla. La dimensione interessante nei Giganti della montagna è proprio questa arte che si realizza su questi tipi disperati, “gente in vacanza”. Lo specifico di queste persone è la loro umanità. E questa loro umanità diventa arte. Una pazza, la scema del villaggio, violentata dai contadini e perennemente incinta, diventa nel mondo della villa della scalogna un’apparizione. Diventa una visione altra. Dive nta Maria Maddalena. L’arte degli scalognati è semplicemente lo spazio della loro vita. Di quello che sono, la cosa che fanno è la loro arte.
Quindi, partendo dall’autoritratto….
Arrivare a capire qual è lo spettacolo da fare ai giganti della montagna. E’ una cosa che non si sa. Pirandello non ce l’ha detto. Si sa che tipo di spettacolo fanno gli scalognati associati. Si mettono insieme e dovrebbe essere lo spettacolo ideale. Ma qual è lo spettacolo ideale se non il tempo presente. Poi, questi scalognati non sanno recitare… la loro specialità sono i fantasmi che hanno dentro. Sto cercando di portare gli attori a fare, rispetto a quello che sono, non uno spettacolo, ma lo spettacolo ideale. L’opera che si realizza di per sé. Chiaramente non si può fare, ma la tensione che propongono gli scalognati non è la tensione alla composizione formale, ma verso la distruzione totale. Sono scalognati, ma sono dei grandi artisti. Il circo è un luogo ideale per raccogliere questa cose, perché è vuoto e quindi può contenere molti fantasmi.