Roma – All’interno del programma di Ostia Antica rientra nel gruppo dei progetti speciali (insieme al già allestito Tragedia a mmare di Alfonso Santagata e a Odisseo del Teatro del Lemming, quest’ultimo dal 16 al 18 agosto nell’area archeologica): Migrare, scene da una cucina (fino al 5 agosto) è forse il più speciale dei progetti, vista l’ambientazione al chiuso, visto il luogo dell’allestimento, certamente inusuale in una programmazione tipicamente estiva, e parimenti anomala all’interno di Ostia. Perché nel caso si entra nel monumentale edificio della ex Colonia della Scuola Vittorio Emanuele III, che si affaccia sì sul lungomare, ma che della brezza marina ha ben poco. Si scende una scala e si penetra nei meandri dell’agglomerato: qui, nell’inferno di una cucina che pare non dormire mai, Italo Spinelli, già noto per La giornata di uno scrutatore allestito nell’ex Ospedale Psichiatrico di Santa Maria della Pietà a Roma, ha mescolato i suoi diciannove attori, professionisti e immigrati, senzatetto e disoccupati, nell’intento, ispirandosi al testo La cucina di Arnold Wesker, di raccontare un mondo senza pietà. Certo, il mondo del lavoro, ma molto tangente al mondo dei nuovi schiavi della Terra. Insomma, si lavora in quella cucina dove ci si scioglie dal caldo, ma si lavora per chi? Probabilmente per un padroncino che impartisce secchi ordini, e che ha ereditato quel ristorante, ma anche per avventori voraci e sconosciuti che mai vediamo, ai quali è ininterrottamente indirizzato il prodotto ultimo che nei sotterranei viene preparato.
In realtà, l’inizio vero e proprio dell’opera conosce una parentesi introduttiva: illuminata da uno spot una vecchia narra la sua esperienza, la sua storia di vita che magari piacerebbe ad un sociologo: una vita passata, si suppone realmente, dentro quella colonia, annegata in quella sorta di edificio che ha la forza di risucchiare come un labirinto quasi kafkiano. Per passare, seguendo due personaggi (il già citato padrone e il capocameriere) che si muovono con studiata lentezza da teatro – immagine alla Perlini, nella stanza dei fornelli, a mezzo metro dagli attori. Che, come già detto, offrono un bel gruppo mescolato, una sorta di melting pot capace di smussare le differenze: rimanendo ben chiaro che già la pressione del lavoro è forza in grado di appianare differenze. Pur udibili ancora, pur vedibili, vuoi per i dialetti, vuoi per le pronunzie straniere, vuoi per il colore della pelle: è nel concertato ben distribuito, che aumenta di volume man mano che i pasti vengono preparati, che la regia di Spinelli si esprime al meglio. Un caos che mai è caos, una situazione quasi esplosiva che mai esplode, un emergere di nevrosi di ogni natura che poi vengono represse: così se il cuoco italiano sembra sprofondato nei meandri di un’allucinata depressione, l’immigrato “di colore” che serve ai tavoli ha un moto di disperazione quando alza le braccia al cielo e chiede al suo dio di aiutarlo. E’ quest’ultimo uno dei momenti più toccanti dell’allestimento: messinscena ove quasi la storia manca, è fluida, vagante. Cosa potrebbe del resto porre una fine alla catena produttiva che mai può interrompersi? Magari uno scatto finale di follia, quando proprio il cuoco bianco, con un gesto estremo, parrebbe tentare il suicidio, rientrando poi in scena con una mano insanguinata. Ecco che allora il mondo eterno dei sotterranei vive una sospensione e, non si sa in fondo quanto ottimisticamente, un canto corale (ci sono tre musicisti dislocati su un lato) chiude quel cammino tracciato in una perenne zona grigia di speranze sempre più poste al margine.
Complessivamente, questo Migrare lascia favorevolmente impressionati: Spinelli ha lavorato, e lavorato bene, con gli attori per vari mesi. La forza dell’allestimento sta dunque in una potenza di gruppo esposta con efficacia; ma anche in una confezione accurata, non fosse altro per l’originalità del luogo che scivola da una dimensione “storica”, quella della colonia reale, a un allestimento di fiction che però è carico di vita e tensioni. Una nota anche per l’illuminazione di Stefano Pagnotti, capace di seguire quella comunità con le luci di un’alba illividita ma anche con il più cupo clima di una sera che meglio pare invitare all’emergere dei drammi individuali.
E’ ancora da ricordare, come ha dichiarato Gianni Borgna, assessore alle Politiche culturali del Comune di Roma, che entro l’anno, proprio all’interno dell’edificio dell’ex Colonia sorgerà un teatro da circa trecento posti.