Londra – Siamo oltre il Tamigi, fra un sobborgo abitato prevalentemente da neri, Deptford, e la bianca Greenwich, fra strade old England e architetture industriali. Una chiesa dedicata a San Paolo sta in asse con la cattedrale che si erge nel cuore della City. Un’astronave di vetro dai colori mutevoli fra collinette artificiali di prato è il Laban Theatre: all’interno, spazi per la danza, la formazione e il teatro si aprono su un largo corridoio che sale disegnando varie curve. Un luogo fantastico, da invidiare. Qui, per il London International Festival of Theatre va in scena L. #09 London, la nona tappa della Tragedia Endogonidia della Socìetas Raffaello Sanzio, undici episodi in dieci diverse città d’Europa, per costruire una tragedia contemporanea.
Il grande foglio di sala distribuito alla fine dello spettacolo mostra dettagli di palmi di mano e una piccola icona dorata raffigurante l’ultimo degli apostoli, San Paolo. E questi sono i due temi dominanti nello spettacolo, le mani tese, protese, distese di donne in lotta con le corde di uno spazio teatrale che richiama una camera di tortura, mani asettiche che puliscono tracce, mani che chiedono e subiscono, e l’apostolo Paolo che indirizza ai carissimi fratelli londinesi una lettera sull’amore come ubbidienza, in un vestito beige con riflessi dorati e cilindro, come un capitalista d’antan, fine Settecento-inizi Ottocento, dei tempi di splendore dell’Impero britannico, un po’ Scrooge di Dickens, un po’ figura che ne richiama altre disseminate in questa saga dell’inquietudine presente, l’uomo in rosso-Zio Sam-Dio con la barba bianca di Parigi, il vampiro che succhiava il sangue a Mussolini e l’Arlecchino di Roma, gli uomini bianchi e quello rosso di Bergen…
La tragedia è un ciclo che sviluppa figure ricorrenti o ne scopre di nuove, in relazione con le città che visita e con i tempi che viviamo, narrando per visioni smaglianti e disturbanti uno smarrimento, lo svanire di una comunità, della polis, la solitudine, l’anonimia, il soccombere a una legge che si trasmette con astuzia e si ripete oppressiva attraverso le generazioni. Qui l’inizio sembra sotterrato nella nebbia, nel fumo che tutti associamo a Londra, ma anche in quella luce lattea e sospesa che ritroviamo in certi quadri, soprattutto quelli incompiuti, di Turner, che stanno non lontano da qui, nella vecchia Tate Gallery, dall’altra parte del Tamigi, dopo il Parlamento. Una materia pulviscolare e invasiva, che dà la sensazione di una particolare vibrazione dell’aria, di pieno e di nulla insieme, di deflagrazione, di smarrimento, di esaurimento, di sogno. Una donna con chiaro vestito antico che si allarga col guardinfante giace appoggiata a un muro come di broccato, della stessa tonalità dell’abito, in quell’incerto vedere e sentire – rumori come singulti, colpi di tosse, lontano latrare di cani – in un’immagine fortemente pittorica. I dettagli si chiariscono a poco a poco, in un lento divenire appannato: una lotta contro corde che pendono dal soffitto, uno sfilarsi gli abiti con gesti energici, di rabbia, riavvolgersi i lunghi capelli biondi, mostrare la faccia, nera, come sarà bianca quella della donna dalla capigliatura corvina e dagli abiti scuri del finale, come le due comunità che si fronteggiano fuori dal teatro.
Emerge, in questo rito di denudamento in lotta, il corpo muscoloso e pallido (sembra cosparso di polvere di marmo) di Francesca Proia, danzatrice controllatissima e possente che sembra una figura di Blake, mentre si solleva il fondale e la luce sbarbaglia in un mostrare e inghiottire, celare. Appaiono, nello spazio dilatato, due piedistalli squadrati. Su uno è appesa una maschera tragica, che sarà portata sul corpo ormai nudo e contorto dell’interprete, fino a coprire, grottescamente, il sesso, a prendere vita animalesca, disumanata, sul sedere, mentre un sottile nastro nero l’accompagna a occultare ed enfatizzare le nudità e tuoni rimbombano, un pianto, un coprirsi il volto. <<Who is it?>>, <<It’s me>> ripete una voce di questo personaggio – si chiama “Testessa dopo”, rivelerà il programma di sala. La figura scompare nella nebbia lasciando la maschera ghignante sul fondale. Nella luce cangiante solo il simulacro tragico, come un’ombra, sembra vivo, mentre riappare la donna, senza parrucca, e diventa statua su uno dei piedistalli, fra rumori di aerei e uccelli. Un altro parallelepipedo scende come per schiacciare il corpo sempre più in torsione statuaria (neoclassica e dolorosa), e dallo scontro fra i due blocchi promana luce. Sembra una lotta fra la figura e l’astratto, fra l’umano e il divino, fra il corpo e il peso.
Scampata la minaccia, la donna scoperchia il blocco del piedistallo, che si rivela tomba. Vi si immerge fino alla cintola, sporcandosi di fango. Ne uscirà, lasciando sue impronte sul bianco pavimento e sullo schermo trasparente che la separa dal pubblico, fra melopee orientali e luci sempre più incerte. Irrompe una efficiente e comica squadra delle pulizie che si bloccherà solo quando una bambina in camicione entra e cade come morta in terra. La piccola si alza, lasciando indietro una pozza di sangue. Riprende la pulizia, più affannosa, fino alla chiusura minacciosa del sipario.
Un intervallo di luce e di suono dilaga sul velario, bombardando gli stomaci degli spettatori. Alla riapertura della scena appaiono animali, gatti molto inglesi, un desco con quel San Paolo in cilindro, abbandonato sulla sedia o addormentato sul ripiano, che scrive, che legge, che si taglia la lingua e la dà da mangiare ai felini scorazzanti, e un gruppo di misteriosi disoccupati di piccola taglia bambina travestiti da comici marinai vecchi, che – fra ammucchiate, cadute e mitragliate – fanno una dimostrazione con cartelli bianchi. Uno di essi spegne un candeliere ebraico e legge, per conto dell’apostolo mutilato dell’organo del verbo, l’inizio di una seconda lettera ai Londinesi dove si esalta l’obbedienza dovuta, con tutto il corpo, alla nuova legge, quella dell’amore. Obbedienza panica, dimostrata dallo stesso santo prostrato a quattro zampe, abbracciato da un alberello meccanico che si piega ad avvinghiarlo e a possederlo con movimento sussultorio.
La scena si svuota e si oscura. Dal muro escono bandiere. Non è più il tricolore francese contro rumori guerra, come a Parigi: sono due Union Jack che sventolano placide e poi convulse sotto rombi di battaglia – intendiamo, in questi giorni di orrore e disonore per un assurdo conflitto, per le torture. Si abbatteranno esangui, i vessilli, per esser riassorbiti nel muro. La scena diventa nera, trasformandosi a vista, come a Roma. La luce fioca manifesta appena nel buio una figurina di donna-bambina, nera, che sbuca dall’oscurità di un nuovo fondale, alle prese con quella corda che sembra appenderla, contro cui pare lottare, a cui dà l’impressione di abbandonarsi. <<Chi è?>> domanda. <<Sono io>>. Musica dolce e misteriosa affianca la bambina e anche la donna, apparsa ora scura con il volto bianco. Si vede e non si vede. Sembrano, in certi momenti, lottare o giocare con fili di luce evanescente. In altri paiono appese. Come impiccate. Incastonate nel pesante fondale.
Il gioco dei riferimenti alla città (il volto nero e il volto bianco, San Paolo e la City, i richiami pittorici che ci sembra di scorgere) si intreccia a simboli più profondi, di complessa decifrazione, come i richiami alla nuova Legge attraverso la citazione apocrifa delle lettere dell’apostolo. Viene adombrata, dalle parole vergate da Claudia Castellucci, lette solo in parte ma distribuite integralmente alla fine dello spettacolo, una legge fatta di abbandono e obbedienza, di passiva attività, di ardore di fede, che sostituisce le precedenti, disegnando una rottura che finisce per ricostituire un nuovo ordine. Questo sembra narrarci la Tragedia Endogonidia, se la comprendiamo giustamente: il riformarsi della legge fin dentro di noi, la ribellione che viene contrastata o accettata per essere sempre riassorbita e anestetizzata, nullificata, trasformata in nuovo sistema di legge, pronto a inglobare, a divorare gli individui. Alla lunga si rivela lo spirito della City, di quel capitalismo che nasce dall’etica protestante, cristiana, paolina, ma anche quella dialettica di continuo superamento del passato e del presente nell’esplosione della contraddizione che rivela la più riposta e dirompente verità della storia, per rimodellarla, per esaurirla: qualcosa che ci porta dalle parti di Hegel e di Marx, fino a Walter Benjamin (alla base di questo episodio il regista-autore Romeo Castellucci rivela la presenza delle interpretazioni delle Lettere di San Paolo di Taubes e Agamben).
L’eroe anonimo si scontra con le possibilità della legge, sia quelle normative che quelle eversive, che creano nuove costellazioni di leggi. La sofferenza anonima si ripete nella donna, chiamata “Testessa dopo”, e nella bambina, denominata “Testessa prima”, in un ciclo che sembra annullare il tempo nell’implosione della storia, nell’indifferenza degli uomini delle pulizie, degli animali, dei piedistalli monumentali, della maschera che guarda dal passato con orbite vuote. Se lo spettatore può perdere il filo percorrendo questi ardui sentieri, sicuramente si ritrova in immagini che rendono il teatro non un’illustrazione né un racconto, ma un mistero, una cerimonia che postula un bisogno ermeneutico, un’esperienza radicale che chiede attenzione profonda e mette in dubbio l’orgoglio delle capacità di comprensione, di decifrazione e, perfino, di percezione. La Tragedia, qui, porta in scena principalmente il guardare come sfocatura, malattia degli occhi, rendendo incerta la distinzione di porzioni o particolari della scena, delle figure o di dettagli di esse, sfumata, deformata, sfuggente la definizione dell’immagine in certi punti dello spazio. La domanda che ci pone è: come ci nutriamo di rappresentazioni e come chiediamo spiegazione, emozione, in definitiva consolazione, all’arte.
Qui siamo oltre ogni troppo facile orizzonte di attese, in una freddezza e distanza vibranti che ci implicano totalmente, paradossalmente: creazione è un soffio, un nulla, uno dei suoni di Scott Gibbons, l’attimo di una delle invenzioni figurali di Romeo Castellucci e il successivo, una delle rare parole scritte da Claudia Castellucci o dei movimenti concertati da Chiara Guidi, un particolare della presenza dei sei ragazzi Castellucci in scena, o uno sguardo, un riversarsi di Sergio Scarlatella San Paolo, un muscolo in tensione o un ripiegarsi di Francesca Proia. Qui il mondo che ci circonda, con le sue durezze, i suoi problemi, i suoi misteri, i suoi cerimoniali cadaverici, è come se fosse esploso in schegge che non riusciamo a ricostruire, è come se fosse sfumato in dettagli che non possiamo mettere a fuoco tutti insieme, in elementi che non si lasciano collegare facilmente. Forse perché in scena siamo noi e quei frammenti lacerati fanno parte della debolezza del nostro pensiero, della sfocatura della nostra visione, dell’incertezza e del dolore del tempo dove siamo precipitati.
L’eroe sofferente della tragedia di un mondo disgregato, mutante e oppressivo, siamo noi stessi, prima e dopo l’attimo dell’esplosione che continuamente (ri)viviamo come un seducente incubo.