Napoli – A proposito della drammatica realtà che, a volte, l’universo della coppia si trova ad affrontare, lo psicanalista junghiano Aldo Carotenuto nota: <<Il tempo sembra logorare inesorabilmente il rapporto e introdurvi la minaccia del silenzio, di un vuoto di comunicazione che sfocia nel triste epilogo del riconoscimento di non avere più nulla da dirsi. È qui che si incide una frattura profonda tra la verità del corpo e la menzogna del cuore: la coppia può mantenere il proprio equilibrio fittizio, la propria infelicità che, malgrado tutto, serve a un qualcosa che non si sa ammettere, ma subisce l’estromissione dei corpi, il loro estraniamento dalla vita dei due protagonisti. Il corpo non può mentire>>. Mentre, riguardo a coloro che non sanno o non vogliono farsi sorprendere e sconvolgere dalle meravigliose estasi come dai diabolici e insopprimibili tormenti dell’amore, il poeta libanese Gibran scrive: <<Ma se la vostra fame non cercherà nell’amore che la pace e il piacere/Allora meglio sarà per voi coprire le vostre nudità e passare oltre l’aia dell’amore/Nel mondo orfano di climi dove riderete, ahimè, non tutto il vostro riso, e piangerete non tutto il vostro pianto>>.
E non è un caso se abbiamo scelto questi due brani, tanto diversi eppure così profondamente speculari, per introdurre il discorso su La solita cena, ultimo lavoro di Manlio Santanelli, messo in scena, al Théâtre de Poche di Napoli, per la regia di Lucio Allocca. Difatti, i protagonisti dello spettacolo sono Mauro e Adele Anselmi, due coniugi sposati da vent’anni che, nel corso di una loro rituale “solita cena”, intrecciano un dialogo che, se ad una prima e superficiale considerazione può risultare intriso di quotidiana banalità, colto nell’immediatezza di una situazione dalla forte “apparenza realistica”, rivela invece, nel suo progressivo dipanarsi, un forte valore simbolico che lascia emergere uno dei motivi cari alla drammaturgia del Santanelli: la falsa limpidezza e l’ipocrisia della comunicazione borghese. I personaggi in questione, infatti, più che parlare sono “parlati” dal loro linguaggio, lasciando trasparire così l’angoscioso volto dell’incomunicabilità e della solitudine, rivelatore di nefasti e orribili segnali di allarme, di follia, di morte. In ciò, erede diretto di Pinter e Adamov, Santanelli ancora una volta fa sfoggio qui della sua notevole caratura di drammaturgo, straordinariamente bravo a costruire un labirinto di parole meravigliosamente serrato, apparentemente inconcludente e vacuo, e a rappresentare, con tutta la sua carica di tragica ironia, e come meglio non si potrebbe, il “fantasma” del più totale egoismo narcisistico, attribuendo a Mauro Anselmi una “cecità dell’anima” e un “cinismo dell’intelligenza” a dir poco grotteschi. Infatti, il protagonista – interpretato da un Peppe Miale egregio pur con qualche sbavatura, il cui unico, vero difetto può diventare quello di lasciarsi prendere troppo la mano da una “caratterizzazione” che, invece, deve cedere di più il posto allo scavo psicologico di un uomo oramai reso arido, meschino, frustrato e avaro di sentimenti dalla sua stessa vita – non si accorge che, nel corso di quella “solita cena”, accade qualcosa – ed è ciò che poi struttura il testo in parola – di macroscopicamente insolito: Adele cambia per ben cinque volte identità.
E vanno senz’altro citate tutte e cinque le interpreti (Federica Aiello, Diana Del Monaco, Antonia Esposito, Roberta Astuti, Annachiara Senatore), che ben rappresentano, con la loro estrema diversità tanto fisica quanto caratteriale, quello che in Adele, in quanto moglie di Mauro, è avvertita come un’esigenza fortissima di cambiamento. Esigenza di cui Mauro non si rende minimamente conto, chiuso com’è in un universo che inizia e finisce con sé stesso.
A questo punto, riprendendo quanto scritto in apertura – riportando le considerazioni di Aldo Carotenuto – va detto che Adele, nel sottrarsi al suo corpo si sottrae, di conseguenza, alla parte più intima di sé e, attraverso una sorta di metempsicosi in vita, si incarna in cinque diverse donne: forse nella speranza che il marito si accorga ancora di lei come corpo sessuale; o forse in un continuo gioco fatto di occultamento/ri-velamento della verità: perché, come dice Heidegger – e con lui Lacan – <<la verità, nella sua essenza, è s-velamento – una “offerta” dell’essente – che equivale a un velamento – perché l’essere, nell’atto stesso di schiudersi, vi si ritrae e nasconde>>. Ma purtroppo Mauro Anselmi, come dice Gibran, è tra coloro che nell’amore cercano la pace, tutt’al più il piacere, non certo il pieno coinvolgimento emotivo del corpo, dello spirito e, perciò, la Verità: ammesso che ancora ne abbiano di Amore! Egli preferisce non piangere tutto il suo pianto e non ridere tutto il suo riso. Mentre a Adele, a questo punto, non resterà forse che l’“ultima trasformazione”, in un finale tanto allegorico quanto enigmatico – suggestivo ma forse poco ponderato e per questo risultante un po’ furbo – che ci mostra l’alienazione di un mondo dove, oramai, le coscienze e le intelligenze sono narcotizzate da una televisione che ci impone tutto… anche la persona da amare!
Dunque, se sul piano concettuale il testo di Santanelli affronta, con tragica ironia, il delicatissimo tema dell’incomunicabilità e del progressivo disgregarsi delle emozioni all’interno della coppia, è però sul versante formale che questi temi trovano la possibilità di incidere con tutta la loro implicita forza. Lucio Allocca, infatti, dimostra di aver compiuto un’intelligente e felice scelta registica nell’adottare un doppio piano rappresentativo: all’iperrealismo della situazione e della recitazione dialogica, ha sovrapposto il simbolismo degli oggetti, della scenografia, dei toni espressivi, delle parole, dei silenzi: quindi dell’atmosfera.
La sensazione immediata che se ne riceve è paragonabile a quella che, in genere, viene trasmessa da certi quadri iperrealisti di Richard Estes, di Colville o di Ralph Goings, nei quali tutti gli elementi della realtà – colta nei suoi aspetti più consueti, quotidiani, a volte banali – attraverso l’uso del “trompe-l’œil”, perdute le loro consuete caratteristiche, assumono connotazioni paradossali e insolite: in una parola simboliche. Difatti, la regia di Lucio Allocca, mostrando grande sagacia e sensibilità nel cogliere le contraddizioni tipiche che attraversano i drammi santanelliani – e ben lontana dal tracciare un bozzetto naturalistico, come troppo frettolosamente e grossolanamente si potrebbe dedurre – costruisce, intorno alla vicenda dialogica dei protagonisti, Mauro e Adele Anselmi, un’atmosfera “congelata”, in cui tutti gli elementi che vi appaiono – le parole, le frasi, i discorsi, gli oggetti scenografici, finanche i personaggi – appunto come nei quadri iperrealisti, sono sì la riproduzione accurata di particolari reali ma, al tempo stesso, sono immersi in una dimensione al di fuori del reale, immobilizzati nella loro essenza e nel reciproco isolamento. Insomma, per farla breve, acquistano un valore fortemente simbolico. E alla creazione di questa atmosfera sospesa e inquietante contribuisce, con felice intuizione, la bella invenzione scenografica di Luigi Ferrigno, anch’essa di ispirazione simbolista. Come scrive Silvia Carandini in L’arte del teatro in Francia dal naturalismo alle avanguardie, le estetiche naturalista e simbolista si presentano come <<concomitanti, opposte e insieme strettamente complementari>>.
Di tale complementarità, La solita cena rappresenta un bell’esempio perché ciò che in questo dramma grottesco più conta, ciò che più “parla” alle nostre anime, non sono le sterili parole dei protagonisti, i loro fumosi discorsi ma, per parafrasare Charles Baudelaire, è <<la segreta lingua […] delle cose mute>>. Solo imparando ad ascoltarla, si potrà intuire la verità.