Milano – Qualche settimana fa, assistendo ad un lavoro realizzato da un gruppo di anziani in un piccolo centro del Monferrato, per celebrare i cent’anni di una Casa del popolo (ne ho riferito da queste pagine, sul numero 18 del 7 maggio), mi ero domandato, con un certo scoramento, dove erano, cosa facevano i giovani. L’altra sera, al Teatro Verdi, ho avuto una risposta che mi ha allargato il cuore. 1968 è uno spettacolo che, come ha dichiarato pubblicamente Mario Capanna, deve essere visto da Udine a Caltanisetta. E non lo hanno fatto dei vecchi ragazzi del ’68, ma dei giovani, per lo più delle giovani donne. Sul fondo, in una scenografia progettata da Maria Spazzi, zeppa di banchi di scuola accatastati, ove occhieggiano i ritratti del “Che” Guevara e di Jimi Hendrix, sono appollaiati tre musicisti (Massimo Betti, Elio Longato, Andrea Poli, rispettivamente alla chitarra, alle percussioni e al basso). In proscenio si muovono le quattro attrici (Beatrice Schiros, Irene Serini, Marcella Serli, Sandra Zoccolan), senza risparmiarsi, con una forza comunicativa che ti cattura. Sandra poi, quando prende in mano il microfono e canta, ha dei registri bassi che ti entrano nei precordi. Il testo è stato costruito, studiando e cucendo documenti del tempo, da Paola Ponti e Serena Sinigaglia, che firma anche la regia.
Lo schema drammaturgico è molto semplice, quasi didascalico. Il lavoro è scandito in canti, come un oratorio laico, e restituisce con geometrica chiarezza, e insieme col coinvolto calore della passione, ma a volte anche con ironia, gli aspetti più importanti del ’68, dalla contestazione studentesca, alle grandi conquiste civili, all’evocazione di personaggi che con le loro azioni, con la loro testimonianza, hanno conferito lievito culturale e spessore politico a quella stagione: Franco Basaglia, don Milani (<<Mi sono innamorata di loro>>, confida Paola Ponti, <<dell’autenticità della loro scelta di democrazia: oggi non esistono più figure così…>>). Fino alle citazioni di Allen Ginsberg, di Bruce Springsteen, di Martin Luther King, di Bob Kennedy che, rifacendosi a Tacito, crea un inquietante corto circuito fra le guerre di conquista dei Romani e l’imperialismo americano in Vietnam, che si proietta fino alla guerra in Iraq. Ma questo ricchissimo e policromo patchwork, grazie alla felice congiunzione fra la bravura dei musicisti e delle attrici, impegnate in spericolate mimesi (ora studenti, ora matti, ora femministe, hippy smandrappati, atleti olimpionici), e l’intelligenza della regia, scorre per quasi due ore con una sorprendente fluidità.
Non si tratta solo di un bello spettacolo, ma di una meritoria operazione culturale che recupera, in particolare ad uso delle generazioni che non l’hanno vissuta, una pagina di storia che sembra negata alla memoria. Ed è quasi commovente scoprire che, all’origine del progetto, ci sia una ragazza che ha poco più di trent’anni. Serena Sinigaglia non la dimostra neppure quell’età. Ha un aspetto da adolescente e un viso dai tratti fini, forse non canonici, eppure attraenti, che ricordano le fattezze di Virginia Woolf. Le chiedo come mai si è sentita attirata dal ’68.
<<La mia generazione>>, mi risponde, <<è cresciuta negli opulenti, stagnanti, materialisti anni Ottanta. Gli anni della volgarità dilagante, per dirla alla Gaber. L’unico fatto di rilievo a cui abbiamo assistito è stato il crollo del muro, che per molti versi si è voluto tradurre nel crollo delle utopie. Tutto ci ha portato ad essere disincantati, cinici, concreti, realisti. Tutto ci ha spinto a non credere nella politica, a non credere che sia ancora possibile fare la rivoluzione. La stessa parola ci imbarazza. Ma l’uomo ha bisogno di utopia se non vuole ridursi ad una bestia. Noi che siamo disincantati sentiamo il bisogno di riappropriarci dell’utopia. Sentiamo il bisogno di essere uomini, nel senso pieno della parola e non mezzi uomini. Utopia e disincanto insieme, ecco>>.
Mentre il pubblico che ha vissuto la stagione del ’68 si ritrova nello spettacolo, e lo apprezza, fra i trentenni l’accoglienza è stata più tiepida, mentre gli adolescenti hanno risposto con entusiasmo.
Serena abbozza un’analisi sociologica di questo fatto. <<I disincantati sono diffidenti per natura e formazione a qualsivoglia volo dello spirito. Sono diffidenti e forse anche un po’ spaventati. Spaventati di fare la figura dei cretini, di ripercorrere il fallimento che molti dei loro padri gli hanno trasmesso e di cui provano vergogna. Difficile stupire un disincantato. È gente preparata, forse più matura degli adolescenti un po’ naïf del’68, ma mi sembrano ometti pronti per essere fagocitati dalla società. Gli adolescenti, invece, vivono un periodo straordinariamente fertile per l’utopia, per il sogno, per lo slancio. Non conoscono ancora la vita, non conoscono ancora il sapore del fallimento. Tanto meno di quello storico. Speriamo che nessuno li rovini>>.
In questo momento Serena è sulla cresta dell’onda: passa da una regia al Piccolo alla direzione di un festival, a progetti sull’emarginazione. Le chiedo che significato abbia avuto per lei questa proposta civile, e che spazio pensa possa avere oggi un teatro politicamente impegnato. <<Per me il teatro è sempre per sua natura un rito politico>>, mi risponde. <<Oggi più che mai, perché anche solo riuscire a farlo, in mezzo alle infinite difficoltà che ti si parano davanti, è un vero e proprio atto di resistenza civile. Non è di moda, il teatro: è povero, è lento ed arcaico… non ti porta né fama, né soldi, e ti richiede mille sacrifici>>. Si ferma un istante, poi sbotta: <<A dirla tutta, mi pare proprio che la società contemporanea non se ne fa nulla del teatro. Il cinema, la televisione, quelli sì, ma il teatro… che pacco, dai! Il problema è che un mondo senza teatro è un mondo senza utopia, è un mondo disincantato, cinico, morto. Quindi, in primis, io vorrei che ci fosse molto più teatro, vorrei molte più istituzioni capaci di proporre un buon teatro: teatro ovunque e super frequentato. Questo vorrei. Che poi sia di natura più strettamente politica e civile, questo, dal mio punto di vista, è meno rilevante. Rilevante è il fatto che forse i teatranti sentono un’esigenza forte di ragionamento politico e civile, perché non esistono più intellettuali capaci di fare il loro vero mestiere. E di novelli Pasolini, sinceramente non ne vedo, ma spero di sbagliarmi>>.
Lo spereremmo tutti.
Lo spettacolo, che dopo il debutto al Teatro Erba di Torino è stato al Verdi di Milano fino al 30 maggio, tornerà nuovamente sulle scene dal prossimo ottobre.