Napoli – Già il titolo evoca la passata esperienza di Ninni Cutaia all’Eti, il Maggio dei nuovi teatri è il segno forte della ricerca di una continuità con il lavoro svolto dall’attuale direttore del Mercadante di Napoli all’interno dell’Ente pubblico, la sua necessità – e la nostra – di non disperdere i risultati ottenuti, in particolare nel quinquennio precedente all’odierna gestione Galdieri-Spocci. E se il Maggio dell’Eti era “cercando i teatri”, quello dello Stabile napoletano è ora “dei nuovi teatri”, conservando il senso di un progetto basato sulla valorizzazione di realtà sottomesse da una politica culturale insensibile a quei processi creativi non finalizzati al mero tornaconto economico e clientelare. E’ talmente ovvio – ma non inutile – affermare che se il sostegno ai più fragili arriva da un’istituzione di alta visibilità, come è un teatro stabile, si innesca un meccanismo virtuoso in grado di contagiare soggetti di natura diversa (dagli Enti locali allo Stato, fino ai difficilissimi rapporti con i privati, sempre disinteressati all’apertura di canali pubblicitari alternativi agli abituali). Per esemplificare è utile ricordare – giusto per restare concretamente in ambito Eti – il ruolo sostenuto dall’Ente nelle “Aree disagiate” o nella gestione del romano Teatro Valle negli anni Tian-Marinelli a favore della nuova drammaturgia e della ricerca, e sottolineare come non sia stato supplito dal Teatro Vascello – nonostante gli investimenti e specialmente nella stagione che si sta concludendo.
Ma la volontà di Cutaia, uomo delle istituzioni che crede profondamente nel pubblico ma dialoga con i privati, di non gettare nella spazzatura il lavoro del “vecchio” Eti si ritrova anche nella convocazione a Napoli del teatro d’Oltralpe, ricucendo lo strappo provocato dal “nuovo” Eti, che ha mandato alle ortiche anche quelle che erano state le Giornate professionali italo-francesi, gli scambi di spettacoli e gli incontri tra operatori allo scopo di creare una rete resistente di comunicazione. Lo sguardo rivolto oltre confine del Mercadante (tra l’altro, accogliendo “La Francia si muove”) si coniuga nei giorni del Maggio con la dimensione territoriale (sperimentata già attraverso il progetto di Martone, “Petrolio”). E’ così che lo spazio dello Stabile si dilata all’intera città e all’interland (con Bagnoli in testa come luogo di pari valenza a quello di piazza Municipio), andando a proporre una pluralità di idee e di linguaggi.
Un programma articolato (addirittura è arrivato Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza per una ripresa dei Pescecani fuori dal carcere; vedi Renato Nicolini in questo numero e Massimo Marino in Tuttoteatro anno IV, n. 28) che però in cinque giorni (dal 25 al 29 maggio) non ha potuto comprendere tutte le realtà produttive della città. Escluso dal programma Davide Iodice – che con la sua Libera mente, quasi in coincidenza della rassegna, ha presentato l’ultimo lavoro La bellezza (che purtroppo non abbiamo visto, appunto per la sovrapposizione con altri spettacoli in cartellone) – ma segnalato nel cartoncino aggiunto al pieghevole per la sola replica – l’ultima – del 28 maggio, accanto al bell’intervento di Renato Carpentieri nel Museo San Martino (sesta edizione del progetto Museum). E abbiamo avuto occasione di vedere in azione proprio Carpentieri, in un omaggio a Immanuel Kant, scritto da Amedeo Messima.
Senza alcun effetto scenico, alla luce naturale e a distanza ravvicinata dai pochi spettatori ammessi, l’attore-regista crea La stanza metafisica sotto un piccolo portico di suggestiva bellezza, mostrando tutta la sua arte attorale. E’ uno dei nostri grandi Carpentieri, e in queste stanze che ha ideato lo mostra in una cruda nudità. Gioca coi personaggi, passando in un battere di ciglio dal registro basso a quello alto, dal servitore di Kant al sommo filosofo stesso, dal napoletano verace e talvolta criptato all’italiano forbito ed esaltante nei suoi voli sintattici. Un monologo che sembra scritto per divulgare un pensiero portante della nostra cultura, per renderlo vivo attraverso il corpo scenico, come con altre pagine di letteratura che Museum ripropone in forma teatrale, fino al 12 giugno.
Davvero sorprendente Massimo Verdastro, che nell’ambito del Maggio napoletano esplode con una carica d’attore-autore-regista (ha scritto il testo a quattro mani con Luca Scarlini e firma la regia con Laura Angiulli), per un “bestiario romano” costruito sul ritmo dell’avanspettacolo. Nella solitudine monolognate di SuperElioGabbaret – che aveva debuttato qualche settimana fa alla Galleria Toledo, lo spazio nei Quartieri Spagnoli diretto dalla stessa Angiulli, dove viene riproposto – Verdastro compone un viaggio articolato e appassionato, attraverso i secoli, in una romanità popolare, intensa, scomparsa. A partire dall’omaggio al libro di Alberto Arbasino SuperEliogabalo e attingendo alle memorie della sua infanzia, Verdastro lascia riemergere anche le storie narrategli in famiglia, la guerra e il dopoguerra. Si entra così nelle viscere della “città eterna” accompagnati da uno strano, grottesco personaggio, l’attore Amilcare Dagnino, in arte Elio Gabbalo, sorta di medium decadente che dà voce a frammenti di testo presi in prestito dal Belli come da Pasolini, Palazzeschi, Gadda e Petrolini… Davanti al fondale illuminato da decine di lampadine, questo luccicante attore di café chantant dialoga con Artaud e il suo Eliogabalo o l’anarchico incoronato, e mescola storie domestiche con la grande storia. Si arriva anche al maledetto 1943, in una Roma affamata dal fascismo, salta in aria San Lorenzo. Sono tremila i morti di quel bombardamento, la maggior parte bambini. Ma il dolore e la tragedia segnano il passo e Verdastro scivola nell’ironia, talvolta spingendo nel canto una di quelle tante voci della città che ha voluto recuperare e trasportare attraverso una dettagliata toponomastica cittadina. Lentamente si spoglia di lustrini e paillettes ed è come se denudasse la sua coscienza per servirla al pubblico. E ciascuno spettatore ne prende un pezzo che conserverà a lungo.
Deludente, invece, Benjaminowo: padre e figlio, proposta conclusiva della rassegna, nonostante la musica di Fabio Vacchi eseguita dal vivo e la forza del testo di Marco Marcoaldi presente in scena insieme con Toni Servillo che ne cura la regia. Se non fosse stato per l’ultraottantenne ufficiale di cavalleria, reduce dal terribile campo di concentramento del titolo, seduto nella poltrona accanto a noi, non avremmo provato emozioni. Uno spettacolo costruito su un minimalismo formale (che, tra l’altro, la sera prima aveva inaugurato il rinnovato Teatro Garibaldi di Santa Maria Capua Vetere e che il 31 maggio sarà all’Argentina di Roma), con un paio di buone idee reiterate per circa cinquanta minuti. Non sempre un nome di successo come quello di Servillo (e un gruppo di lavoro formato, tra gli altri, da Daghi Rondanini, suono, e Pasquale Mari, luci) può garantire un gran finale, per un’iniziativa come il Maggio dei nuovi teatri che resta tra le migliori della stagione teatrale italiana.
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Anno V - 2004
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Quando l’istituzione pubblica riscopre le sue funzioni