Bologna – Da una costola della famosa Carolyn Carlson, coreografa e danzatrice massima americana che però certo non ama gli Stati Uniti, nacque ormai molti anni fa l’Associazione Sosta Palmizi, devota come si capisce alla danza, ruotante intorno a due figure cardine del panorama nostrano: Giorgio Rossi e Raffaella Giordano. Quella che, visti poi gli esiti coreografici (Rossi da una parte, per proprio conto, la Giordano dall’altra – ma molto più inquieta di lui, sperimentatrice che rischia grosso), è la cosa da chiedersi, è grosso modo la seguente: ove si concentrava il punto gravitazionale della Sosta Palmizi (che esiste ancora, come una società un po’ svuotata, solo nominale)? Su Rossi, per caso, tutto propenso alle tinte pastello, addirittura lezioso nelle sue prove soliste? Sulla Giordano? E se su di lei, in quale misura? L’ultimo episodio che li vide uniti in scena fu uno degli spettacoli coreografici più belli degli anni Novanta: Danze. a1n3giordSfondi rosa, celesti, un sussurrare poesie, un garbo mai violato, un porgere il movimento che mai e poi mai scadeva nell’affettazione o nelle piccolezze fini a se stesse. Pare che da quell’anno, il ’94, non l’abbiano più replicato. Peccato. Nel ’95 si esibivano già ciascuno per proprio conto: Rossi con le sue tonalità surreali, bamboleggianti, di teatrino minimo, di piccolo cabaret ove era opportuna l’anestesia di qualsiasi sofferenza; la Giordano, col suo Azzurro necessario, offriva ancora un postespressionismo crepuscolare, camminando in libertà vigilata su un tappeto di foglie colorate.
Poi la cesura, il dramma, lo squarcio che lascia interdetti. La Giordano si ripresenta in scena con Et anima mea. Il garbo e la profondità scompaiono, nell’affastellarsi di una danza sempre più immeticciata col teatro, che però non sembra capace di offrire un gesto risolutore, una qualsiasi stretta finale. Rossi placidamente continuava con le sue nuvole, le sue piume, la sua realtà senza macula. Il dramma è ormai tutto dalla parte della Giordano, influenzata, forse, da un geniaccio fai da te come Danio Manfredini (recente premio Ubu come miglior attore – pienamente meritato) abituato al rimescolio di piani e alle tinte forti. Si ripresenta in questi giorni (dopo l’anticipo romano a “Le vie dei festival”, quando al titolo mancava quel “Quore”), allora, la Giordano, con il suo ultimo Quore. Per un lavoro in divenire, che finalmente sembra spianare la strada ad una sorta di grado zero. Niente scena, presentazione artatamente spartana. Un tavolaccio, un disordine da depressione, storie di ordinaria nullità. Corpi di attori, che con scarsa credibilità riuscirebbero ad essere danzatori al cento per cento, esibiti nella loro nudità. Niente trama, o trama per accumulo. Tutto in divenire, appunto. Lei, Raffaella, che qualcuno ha definito come la migliore danzatrice italiana, è in preda a furori che non hanno trovato ancora risoluzione, ma il suo rotolarsi nel trash, nella miseria, suona quasi come l’inizio di una liberazione, di una rigenerazione covata da anni.
Quore. Per un lavoro in divenire sarà in scena al Teatro Laboratorio San Leonardo di Bologna (il 5 e 6 aprile); al Teatro Franco Parenti di Milano (3 e 4 maggio) nell’ambito di “Teatri 90 Danza”; ex Stazione Leopolda di Firenze (il 6 maggio) a “Fabbrica Europa 2000” e dal 12 al 14 giugno a “Infinito Ltd Performing Arts Festival” di Torino.