a1n16macb1Roma – E’ quasi un rito, magari un’abitudine, che la prima scena del Macbeth offra intravisti o immaginati paesaggi di mondo collassato, di campi devastati, di macerie fumiganti, di lavacri di sangue che azzerano il mondo, in modo che la storia possa ricominciare, che la profezia si possa avverare, che il protagonista scespiriano possa scendere (o salire) la strada lastricata di sangue. Non facevano eccezione in merito gli ultimi due Macbeth che ho visto: quello sublime, tutta anima palpitante, di Nekrosius; quello in formato ridotto ma di sicura intelligenza di Marco Manchisi. Non vige l’eccezione neppure nel Macbeth nuovo di zecca allestito all’India di Roma fino al 28 luglio. Messinscena che un poco gli occhi puntati addosso ha, visto che dal podio impartisce gli ordini quel famoso Marco Bellocchio che noto è per la sua costante attività di regista cinematografico, ma di cui si ricorda un solo allestimento per le tavole teatrali, quel Timone d’Atene risalente a più di trent’anni fa nella cornice del Piccolo di Milano (c’erano Salvo Randone e Franco Parenti). Dunque, si diceva, la regola è rispettata: nel pulviscolo diffuso per la sala, tranciato dall’illuminazione magistrale di Pasquale Mari (favoriti i controluce, i tagli, le dissolvenze e assolvenze a ritmare quadri e cambi scenici) Macbeth e Banquo sono vomitati dal campo di battaglia e, mostrato il loro armamentario costumistico di soldati (lo stile militaresco, disegnato da Sergio Ballo, permane in tutto l’allestimento), sono pronti all’incontro con le streghe “dalla sordida barba”, come avrebbe detto Verdi, che al Macbetto dedicò cura estrema e affetto particolare.
Già lo sapevamo che c’era, perché in conferenza stampa l’avevamo già visto e sentito, ma vederlo intabarrato muove lo stesso riflessioni varie: lui, il Macbeth cui Bellocchio, almeno nelle intenzioni, ha voluto dedicare “un primo piano ininterrotto”, è Michele Placido che qui, in questo allestimento ben sfoltito, che raggiunge 1 ora e 40 minuti al massimo, piomba dalla dimensione del piccolo schermo da tinello a1n16macb2(Placido riesce meglio sul piccolo che sul grande schermo), su una scena che lo obbliga all’incarnazione di uno dei personaggi centrali del teatro occidentale. Bellocchio l’ha voluto riflessivo, e per niente venato di grandattorismo: Placido la sfanga egregiamente, talvolta pacatamente, talvolta anche in maniera sufficientemente macerata, non disdegnando il torso nudo nella scena famosa del secondo vaticinio, che pare un omaggio al cinema più elementare, visto che regista e datore luci hanno pensato di concretizzare la parata dei coronati che verranno con delle semplici ma efficaci ombre cinesi rapprese su uno schermo che pare avere la disarmante sobrietà di un lenzuolo tirato su per l’occasione. Dunque Placido: che non cela talvolta una meccanicità nella scansione vocale (la traduzione, assai limpida, è dello stesso Bellocchio, come pure l’adattamento che procede senza troppe crepature), ma trova a tratti una dimensione di discorso fatto in famiglia nella scena del banchetto con spettro annesso. Che è quello di Banquo, che però qui non appare, visto che Bellocchio adotta una compressione di effetti senza rivoli cruenti a costellare l’offerta scenica. E se è vero che certe tentazioni cinematografiche Bellocchio non le risparmia al suo protagonista (ogni tanto si sente una riflessione fuori campo, quasi uno stream of consciousness, parole vaganti amplificate a commento dell’inquadratura), è altrettanto vero che metà della torta scenica è affidata alla lady di Sandra Toffolatti, bravissima, accuratamente scolpita nell’emissione e nella gestualità, mentre, visto che i due piatti della bilancia sono i coniugi maledetti, appare senza dimensione propria, ma direi più per volontà registica che per altro, il Banquo di Fabio Camilli, (e a questo punto pare meglio definito il Sicario di Alessandro Lombardo, in grado, pur nell’esiguità della parte, di ricavarsi una sua viscida presentazione). Quando poi Bellocchio passa ad una qualche definizione delle tre streghe, un poco scivola nella banalità: le femmine sono alternativamente puttane nell’esordio (pendono da una parete di tubi a testa in giù, nella scena nuda e bella di Marco Dentici), poi un poco scontatamente bambine che giocano a campana quando le rivediamo. Insomma, se Nekrosius, nella sua genialità, le aveva volute onnipresenti in scena, veri spiriti che avviluppavano i protagonisti, qui la vicenda soprannaturale appare come un ramo secco senza ulteriori sviluppi. Ma evidentemente non si può avere tutto: questo Macbeth ha una sua casta, pensosa, godibilità, senza neppure sviluppi tematici netti (lo stesso già citato Manchisi aveva puntato molto sulla corsa al potere, alla corona, che poi era in fondo il miraggio di un sogno teatrale mai soddisfatto). Bellocchio adotta comunque soluzioni sceniche più che interessanti, facendo attraversare ai suoi tutto lo spazio vuoto dell’India, andando da fondali di gruppo molto ben composti a primissimi piani, con gli attori che si portano a mezzo metro dalla platea. E insieme a primissimi piani ci offre un’inedita soluzione per l’assassinio del re, scena che è vista, con un semplice tirar di veli neri, dalla parte della camera dell’assassinato. Un bel colpo d’occhio, non c’è che dire, in uno spettacolo che di sequenze ben costruite ne ha molte, condite con la colonna sonora triste e presente di Carlo Crivelli.
Una sola chiamata alla prima, il che è indice di fredda accoglienza, per un prodotto che risuonerà di certo più fluidamente nelle repliche a venire.