a1n14forte1Roma – Un dato è emerso con costanza dai molti spettacoli che costituivano il pacchetto Eti dedicato al romano “Maggio cercando i teatri”, vetrina ampia, quasi un festival in forma non esplicita, votato alla sperimentazione, alla ricerca teatrale, alla sintesi di generi, ai novissimi e ai meno nuovi della scena italiana. Vale a dire il livello alto, impeccabile, della maggior parte dei numeri presentati. L’abbiamo già notato qui, trattando ad esempio di Egumteatro, con la sua proposta di uno strano Amleto riletto in un capannone industriale pieno di aggeggi strani, ma anche a proposito di quelli de L’impasto Comunità Teatrale Nomade, che presentavano una sorta di musical sperimentale tanto ridotto all’osso quanto brillante nella definizione. Per tacere di chi la perfezione ricerca come chiave fondante: Fanny & Alexander sicuramente, col loro Shakespeare ritagliato in una notte spersonalizzante, squarciata da vocali rielaborazioni elettroniche; ma anche, in un modo che ci è piaciuto molto poco, i Cantieri Teatrali Koreja, col loro kafkiano America che dell’agitazione sperimentale ormai conservava ben poco, e si poneva come esercizio splendido e frigido, perfettissimo, ma algidamente distante.
Fra gli ultimi a fare la loro comparsa, in questo caso al Valle, i Fortebraccio Teatro, nome nato veramente da poco, a seguito di rimpasti e fusioni da gruppi precedenti, avendo come motori Ilaria Drago e Roberto Latini, entrambi allievi della storica Perla Peragallo, entrambi decisi a tentare l’avventura in quella che amano definire “poesia teatrale”, magari la loro propria poesia teatrale. Insomma, dietro i programmi si cela il sogno del teatro di parola, del teatro come parola, come corpo sonoro, come forza, testimonianza acustica. Che però deve incarnarsi in scena, e deve denunziare anche le sue modalità formali di incarnazione. Il titolo di Fortebraccio Teatro era fra i più invitanti, a dire il vero, vale a dire Le ballate del vecchio marinaio, chiara derivazione da La ballata del vecchio marinaio di Coleridge, uno dei monumenti letterari e visionari del patrimonio inglese. E il poema carico di gloria, in scena è risuonato nella sua complessità (una prima parte scenica con la Drago, la seconda con Latini), formalmente pulito, con effetti di eco o simili, sobriamente distribuiti. Ma qui ci fermiamo, perché a tanta preparazione che non conosce l’incertezza, c’è stata l’incertezza di tutto il resto, il fatto che le esigenze sceniche siano state, in ultimo, trascurate. Declamazione – accompagnata ogni tanto da una gestualità che si intuiva poco motivata – e spazio sembravano ignorarsi; il fondale scenico là rimaneva, cosa morta dall’inizio alla fine. Non si è avuto il coraggio di affrontare una staticità assoluta, come nell’ultimissimo dannunziano Bene, e si sono aggiunti elementi di complemento, e però mortificandoli al contempo. Lo spettacolo risultava scisso: vittoria della parola; annichilimento dello spazio. Un’incarnazione del verbo avvenuta a metà.