Spoleto (PG) – E’ nella parte più bassa del Palazzo della Signoria – un edificio del XIV secolo dominato al piano superiore dal Teatro Caio Melisso – che il regista argentino Omar Pacheco ha presentato in prima europea il suo spettacolo Cinco Puertas, giunto ad inaugurare la seconda giornata del Festival di Spoleto sabato scorso (con repliche fino a giorno 9).
Messa in scena nel 1997 nella sala di Buenos Aires “La Otra Orilla”, quartier generale del Grupo Teatro Libre fondato nel 1982 dallo stesso Pacheco, Cinco Puertas è un’opera che difficilmente può essere compresa fino in fondo se non si ha la memoria politica della paura, della violenza e dell’atomizzazione della cultura imposte sul finire del 1970 dal potere della dittatura fascista. Per tutti, uomini e donne, giovani e vecchi, intellettuali e artisti, che sono riusciti a scampare il pericolo di sommarsi alla lunga lista dei desaparecidos, fuggendo o evitando di cadere nelle maglie della repressione, il ricordo di quegli anni è, infatti, un segno indelebile almeno quanto la “grande illusione” della democrazia restaurata del decennio successivo. Il terrore seminato dai golpisti per risolvere conflitti e instabilità sociali non solo ha contribuito alla nascita di movimenti antagonisti come quello delle Madri di Plaza de Mayo, capac e di costruire uno spazio inedito nell’agire politico e di dare un impulso importante alla crescita etica dell’Argentina con il suo modello incorruttibile di coraggio e di dignità, ma ha sollecitato riflessioni interessanti nella cultura e nelle arti. Nel teatro, in particolare, attraverso l’esperienza di Teatro Abierto – epicentro della lotta contro la tirannia imperante negli anni Settanta-Ottanta – e di tutti gli esuli che a contatto con il teatro mondiale hanno saputo rendersi mediatori di un complesso processo di interculturazione, sono scaturite nuove necessità estetiche in linea con i cambiamenti epocali. L’indagine sul rapporto realismo-simbolismo che per la generazione del 1980 ha coinciso, pur nel variegato panorama di proposte, con il bisogno di far convivere l’aspetto socio-politico e quello ontologico, ha portato negli anni Novanta i più giovani (i cosiddetti Carajajì, artisti sulla trentina tra i maggiori protagonisti dell’attuale scena porteña) a d elaborare una poetica post-moderna, caratterizzata da un’anti-estetica e un non-stile solo in apparenza estranei al “crepuscolo delle utopie” degli anni Novanta.
Omar Pacheco, il quale ha pagato sulla propria pelle il prezzo della sua opposizione alla dittatura (dopo aver costituito il gruppo Acción nel 1970 fu costretto ad emigrare dapprima negli Stati Uniti e qualche anno più tardi in Brasile), sembra far confluire nell’allestimento rappresentato a Spoleto entrambe le tendenze su menzionate: senza rinunciare ad una lettura critica della storia contemporanea argentina si avvale di un linguaggio scenico il cui dispositivo costruttivo risiede nell’allucinazione onirica dell’orrore e dell’angoscia; nella creazione di un teatro-immagine che ha il potere di rivelare l’inconfessabile e il proibito. Lo spettatore, accolto nell’ambiente ricavato in un’ala del Teatrino delle Sei, percepisce immediatamente l’atmosfera inquietante di Cinco Puertas. Fumi sprigionati nell’aria, luci soffuse, ritmi assordanti, riempiono la sala fino a quando il pubblico non prende posto sulle gradinate di fronte allo spazio scenico e il buio totale avverte c he la rappresentazione sta per cominciare. Una rappresentazione simile ad un rituale dal gusto espressionista sviluppata per la sua intera durata su un palcoscenico stretto e profondo che viene animato di continuo dalle entrate e dalle uscite degli attori mentre lo stridore della musica elettronica (di Lito Vitale) e i sapienti giochi di luce (di Nicolas Hegi) ripetono con ossessione stupri, fucilazioni, violenze e torture. E’ tutto un apparire e scomparire di brevi azioni svolte in primo piano o sul fondo da figure spettrali i cui corpi vengono evidenziati da fasci di spot che, accendendosi e spegnendosi, fanno procedere la messinscena per rapidi quadri frammentati.
La mattanza causata dalla dittatura interrompe simbolicamente l’andamento lineare della pièce quasi a far risaltare le ferite profonde di un dolore che ha lacerato la storia dell’Argentina. Non c’è fabula, non c’è unità, non ci sono personaggi dai tratti realistici in Cinco Puertas così come sono quasi del tutto assenti i dialoghi fra i protagonisti, divisi nettamente in vittime e carnefici. Tale separazione, infatti, è troppo marcata per consentire loro di interagire e di comunicare: sulla scena si contrappone chi compie pesanti atti criminali e chi li subisce, chi uccide e chi desaparece senza alcuna speranza di sopravvivere. Indossando pesanti divise, militari spietati lasciano stramazzare a terra uomini e donne, li sottopongono a sevizie di ogni sorta, li costringono a sopportare supplizi atroci ai quali gli altri, inermi nella loro completa nudità, reagiscono con grida e urla lancinanti alternate di tanto in tanto ad una voce fuori campo che invita gli spettatori alla riflessione. Poche parole, spesso frasi stringate, che allentano la tensione e poi di nuovo scene di morte, corpi femminili spogliati e oltraggiati con frenesia, prelati in tunica nera e berretta rossa chiusi in un’ipocrita indifferenza di fronte ad esseri umani incatenati come bestie, figli in fasce strappati e uccisi dagli stessi padri tra le braccia delle madri ormai in preda alla follia. Quest’ultima situazione, nello spettacolo, acquista il valore di un leitmotiv che serve a Omar Pacheco per passare dal collettivo al privato, e viceversa, e ribadire la necessità di elaborare non solo le privazioni affettive personali, ma anche i lutti sociali. Da claustrofobici ambienti casalinghi con donne brutalizzate da forcipi giganti, si passa allora – attraverso black out improvvisi – a imprecisati (eppure riconoscibilissimi!) luoghi dell’orrore dove cadaveri ammonticchiati, croci e bare mantengono vivo nel pubblico il ricordo dell’eccidio argentino. Se la mancanza di memoria individuale coincide con l’annullamento dell’essere umano, l’assenza di memoria collettiva condanna la società al fallimento, sembra dirci il regista. Un messaggio forte, veicolato dal meccanismo della reiterazione che, lungi dall’impedire lo svilupparsi della messinscena, è a nostro avviso la principale matrice espressiva di Cinco Puertas. Omar Pacheco non vuole dimenticare, chiede con assillo a ciascuno di interrogare la propria coscienza ed è forse per questo che lo spettacolo si conclude senza generare catarsi. Nel finale, gli attori-vittime risorgono nudi dalle casse da morto e procedono in controluce verso il pubblico prima che le loro sagome vengano risucchiate per l’ultima volta dal buio. Termina così la pièce. D’altronde a nulla varrebbe raccogliere in proscenio gli applausi esorcizzanti degli spettatori e a niente servirebbe privilegiare la finzione a vantaggio della realtà.