a1n1costnParigi – A settantacinque anni, di cui quasi cinquantotto trascorsi ad esplorare le tecniche e il linguaggio teatrali, Peter Brook ha presentato al Théâtre Bouffes du Nord di Parigi il suo ultimo capolavoro: Le costume (Il vestito). Lo spettacolo che ha inaugurato un ciclo di rappresentazioni dedicate al “Sudafrica: Teatro delle Townships” – il teatro fiorito nei ghetti neri per naturale reazione alla violenza e all’oppressione dell’apartheid – è una tappa importante nel percorso del regista sempre pronto a lasciarsi sedurre da quel movimento di rivoluzione “a spirale” alimentato dalla coesistenza dei contrari, delle differenze e delle antinomie (1).

Tratto dallo scrittore Mothobi Mutloatse e dal regista Barney Simon, entrambi africani, da una novella (The Suite) di Can Themba, originario di Johannesburg, Le costume esprime non solo l’urgenza di Brook di confrontarsi con un testo di un autore contemporaneo dopo aver rivolto, almeno negli ultimi quindici anni, il proprio interesse sui classici (tranne Woza Albert! del 1989 ispirato dall’opera omonima degli africani Percy Mtwa, Mbongemi Ngema, Barney Simon e L’Homme Qui del 1993, adattamento de L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello di Oliver Sacks, dal 1985 fino ad oggi gli allestimenti brookiani sono stati suggeriti da Shakespeare – La Tempête, Qui est là; dall’epica indiana – Le Mahabharata; da Debussy e Maeterlinck – Impressions de Pelléas; da Beckett – Oh les beaux jours), ma soprattutto il suo bisogno di tornare a concentrarsi sulle “piccole forme” (2) capaci di rivelare, per la loro stessa semplicità, la contraddittoria complessità della vita. Attirato dagli opposti (3) e convinto che per tendere organicamente verso la pienezza dell’essere occorra saper adeguare il personale punto di vista ai mutamenti del mondo, Brook passa dal “grande” al “piccolo”, invertendo la direzione della sua ricerca più recente. Così, all’enorme saga del Mahabharata, al complesso Qui est là (dove veniva smontato e rimontato l’Hamlet di Shakespeare), alle articolate riflessioni sulla solitudine dell’uomo di Oh les beaux jours, egli contrappone Le costume, una storia breve ed essenziale la cui “vitalità” viene enfatizzata dal gioco calcolato delle improvvisazioni e dalla carica rigeneratrice dell’umorismo. Un umorismo sottile che allenta la tensione drammatica senza sminuire la portata provocatoria della pièce e che consente al regista di condurre lo spettatore nel contesto scottante del Sudafrica con la semplicità del divertimento, il gusto dello sberleffo, la forza dell’ironia. Il riso, però quello feroce del ridicolo, ha nello spettacolo il potere di arginare le ansie collegate all’apparizione del “diverso”, il Nero, e il carattere buffonesco di alcune situazioni o di certi personaggi funge da catalizzatore all’insensata crudeltà dei Bianchi. Proprio come accade nelle migliori tradizioni popolari, Brook associa in una sapiente giostra di contrari l’ilarità alla satira e giunge a gridare al mondo la ferocia della sopraffazione con una leggerezza che fa di Le costume (adattato in francese da Marie-Hélène Estienne) il più alto esempio di teatro “sacro” e “rozzo” insieme. Sebbene, infatti, nel passato il regista abbia cercato costantemente di conciliare i due opposti in nome di un ostinato disprezzo per “le verità assolute” (4) mai prima di adesso ci siamo trovati di fronte ad una messinscena che, nell’economia di un’ora, raggiungesse un’unità così perfetta. Il “piccolo” questa volta vive di autonomia propria e non ha soltanto il “ruolo perturbatore” de L’Os che faceva da contrappeso a La Conférence des oiseaux (5); delle improvvisazioni sul modello popolare del Ruhozi o del Ta’zieh persiano che durante il soggiorno in Iran si contrapponevano alla ricerca della primordiale sacralità di Orghast; de Le sac ridicule, un montaggio di alcune farse di Molière, che serviva da bilanciere a Les Iks (la tragedia collettiva della tribù ugandese costretta all’estinzione dai provvedimenti repressivi del governo britannico); dei numerosi show (6) sul tappeto in Algeria, in Niger, Nigeria, Dahomey e Mali che facevano da contrappunto ai brani di Orghast e della Conférence, recitati in diverse ore della giornata negli stessi villaggi africani.
Seguendo lo sviluppo lineare della storia e mantenendo intatto il linguaggio immediato di Can Themba, il regista ci conduce a Sophiatown, un agglomerato alle porte di Johannesburg, dove un narratore d’eccezione (Maphikela) rievoca la vicenda del tradimento di una donna (Matilda) ai danni del marito (Philémon). Gli attori, tutti neri, riportano subito alla memoria l’esperienza africana di Brook, il quale già nel 1972 – a due anni dalla creazione del Centro Internazionale di Ricerca Teatrale – si spinge nel sud del continente nero insieme al suo gruppo eterogeneo di attori per interagire con popoli mai toccati da un’ordinaria tournée teatrale. A contatto con gli abitanti dei villaggi più remoti di quella terra, il regista sperimenta una comunicazione diretta fondata sullo scambio reciproco tra attori e spettatori; scopre un “pubblico ideale” libero da sovrastrutture e condizionamenti culturali; conosce i meccanismi dell’arte del narrare, depositaria di una tradizione che affida al racconto orale il compito di trasmettere il patrimonio della collettività (7). In Le costume è Maphikela, interpretato dal magistrale Sotigui Kouyate, a fungere da io-epico. Alla stessa maniera di quanto accade nelle vie di Sophiatown, in cui “ognuno racconta, mima” – afferma Brook – “condivide con gli altri ciò che avviene durante il giorno nella città dominata dai Bianchi” (8), egli accompagna lo spettatore nel sobborgo denigrato dal regime razzista e da testimone, né al di fuori della storia né del tutto coinvolto, espone i fatti di cui si andrà a parlare, presentando il contesto della storia e le dramatis personae. Maphikela è un griot moderno. Niente lo accomuna alle precedenti due figure di narratore presenti nella Conférence des oiseaux e nel Mahabharata. In entrambi i casi, infatti, l’Upupa e Vyasa hanno la fisionomia di “guide spirituali” investite del compito di indicare agli altri personaggi il cammino iniziatico verso la riappropriazione del “sé” (entrambi gli spettacoli sono una metafora dell’essere alla ricerca delle proprie origini e del senso della vita) forti della loro capacità di trascendere gli effimeri piaceri del quotidiano. Maphikela, invece, ha i tratti di un uomo comune perfettamente inserito nell’universo dipinto da Can Themba ai primi degli anni Cinquanta: è un Nero residente a Sophiatown che subisce le umiliazioni dei Bianchi come tutti i suoi coetanei e che mette a frutto la saggezza derivatagli dall’esperienza per riferire al pubblico le vicissitudini di Matilda (Marianne Jean-Baptiste) e Philémon (Bakary Sangare). Coniugando anonimato e individualità, Kouyate/Maphikela rappresenta così uomini e donne, giovani e vecchi; introduce le azioni degli attori; tiene la platea con il fiato sospeso grazie alla sua destrezza interpretativa; rallenta o accelera il ritmo della pièce. Persino il suo corpo sembra seguire il processo mutante dell’identificazione e della distanza: la voce sommessa e i gesti pacati dell’osservatore attento a commentare dall’esterno gli avvenimenti si trasformano in parole gridate e in movimenti concitati quando il narratore, ad esempio, diventa uno degli amici di Philémon e si ritrova con lui a giocare a carte, a bere, a scherzare per le strade di Sophiatown. A volte, poi, è dal timbro basso, severo, della sua voce o dalla postura immobile a capo chino, che si percepisce l’approssimarsi del dramma come all’inizio dello spettacolo nel momento in cui accompagna lo spettatore nella modesta abitazione della coppia.
Qui, in poco tempo, si prepara la tragedia: Philémon, tornando a casa all’improvviso, scopre la moglie a letto con il giovane KK Joe (Marco Prince) e viene colto da un eccesso furibondo d’ira non appena si accorge che l’uomo ha lasciato per la fretta il proprio costume sulla sedia. L’abito sarà per il marito la metafora del tradimento e verrà usato spietatamente per punire la donna. Strumento di memoria e di vendetta l’oggetto è il segno indelebile dell’infedeltà di Matilda, la quale viene costretta a nutrirlo, a lavarlo, a corteggiarlo, a ballarci insieme e addirittura a presentarlo ad un manipolo di amici durante una festa, quasi si trattasse dell’ombra vivente di KK Joe. La delusione di Philémon è troppo grande. Per lui, che aveva cieca fiducia nella moglie e credeva di aver trovato la felicità nell’ambiente domestico (almeno lì, visto lo squallore della realtà esterna soggiogata dall’apartheid!), rassegnarsi alla perdita dell’amore equivale a mettere in atto un piano diabolico di rivalse e rappresaglie psicologiche. Dall’inferno del regime razzista a quello familiare sembra non esserci alcuna differenza e l’analogia fra i due universi alienanti dà risalto al tema libertà-repressione esteso da Brook dal conflitto di razza al difficile rapporto umano. Passando dalla sfera pubblica alla sfera privata, dunque, è la violenza di quanti con le loro scelte limitano l’agire degli altri ad essere messo sotto accusa, si tratti dei Bianchi di Johannesburg o di Philémon.

Nello spettacolo, il regista preferisce trascurare l’interpretazione psicologica dei personaggi a vantaggio di una recitazione diretta, sostenuta dalle improvvisazioni e dalla matrice comico-grottesca. Attraverso le improvvisazioni – aperte alla fantasia del gruppo pur nel vincolo di una forma fissa pre-stabilita – gli attori conferiscono al testo un ritmo dinamico che viene accentuato dai tempi pressanti dei dialoghi e dall’impianto umoristico di alcune situazioni. In tal senso, spicca la scena in cui Matilda si abbandona ad una seduzione improbabile avvinghiata al vestito vuoto dell’immaginario KK Joe. Al centro dello spazio scenico, sola di fronte alla platea, la donna infila le proprie braccia nella giacca e comincia a simulare carezze, baci, abbracci affettuosi del suo amante, dimostrando ora compiacenza ora ritrosia a seconda dei modi più o meno “spinti” adottati dal costume da lei stessa messo in movimento. La gag alleggerisce per un attimo l’atmosfera della rappresentazione, ma non il dramma di Matilda. Nel suo atteggiamento si coglie il disperato bisogno di reagire, la volontà di escogitare qualsiasi mezzo per resistere alla vendetta implacabile di Philémon, la frustrazione di chi è abituato a subire e non ha paura di mostrare la propria fragilità. Quando anima il completo di KK Joe, Matilda è una sorta di marionettista e marionetta insieme: cerca di dare vita ad un oggetto inerme (non a caso sino ad allora abbandonato su una sedia) che, come lei, trova la propria ragione di esistere solo se manovrato da altri.

Mentre l’arrivo di Philémon interrompe l’esilarante “duetto amoroso”, Maphikela si rivolge al pubblico e commenta l’accaduto. L’intrusione epica evita allo spettatore di essere trascinato nel meccanismo dell’illusione; lo chiama in causa e lo stimola a riflettere; frantuma l’unità spazio-temporale della pièce, rinviando ad episodi reali di violenza che vanno oltre il presente del qui e ora dello spettacolo. Dopo il suo breve intervento, Maphikela esige che la storia vada avanti e prepara il discorso conciliatorio di Matilda, la quale confessa a Philémon l’intenzione di entrare a far parte di un club culturale impegnato in vari progetti ricreativi e umanitari a favore della comunità. Visti i precedenti, la scelta inconsueta della donna suscita nel marito non poca sorpresa e offre lo spunto per un dialogo divertito tra battute e frasi a doppio senso. Philémon la prende in giro; ironizza sulla sua decisione, ammiccando al pubblico come a pretenderne la complicità; esprime una sarcastica preoccupazione per il costume, privato d’ora in poi della presenza di Matilda. Malgrado Philémon non smetta mai di provocare la moglie, l’equilibrio del ménage sembra essere ristabilito: Matilda segue con diligenza tutte le iniziative del club, gestisce la casa e si occupa, naturalmente, del famigerato vestito; l’uomo prova a guadagnarsi da vivere (il lavoro è diventato un miraggio da quando il governo di Johannesburg ha trasformato Sophiatown in un ghetto-dormitorio) e nel tempo libero si intrattiene con gli amici nei bar o nelle vie della cittadina.
L’atmosfera conviviale della strada dove le persone amano incontrarsi e raccontarsi le umiliazioni inferte dai Bianchi, viene suggerita da Brook attraverso l’elemento corale che dà risalto alle situazioni di gruppo e all’espressività fisica degli attori (9). Questi ultimi, tranne Marianne Jean-Baptiste, si calano nel ruolo di abitante di Sophiatown con il risultato di passare in rassegna sotto gli occhi dello spettatore gli atteggiamenti e i sentimenti di uomini che non rinunciano ad interrogarsi sull’origine di tanto odio da parte di individui capaci persino di pretendere l’appellativo di “Signore” ogni qualvolta un Nero si rivolga loro anche soltanto per un saluto. Senza eccessi, ma sempre carichi di energia, sono la gestualità e i dialoghi degli attori ad esprimere il desiderio delle persone di Sophiatown di partecipare ciascuno degli aneddoti e delle sventure dell’altro: così i movimenti più o meno frenetici uniti alle parole pronunciate ad alta o a bassa voce restituiscono un clima di generale euforia in cui ad ognuno è concesso di ridere o piangere, mostrare la propria rabbia o scherzare sull’idiozia dei Bianchi.

Alla comunicazione immediata e spontanea della strada si contrappone il silenzio di Matilda e Philémon quando uno stacco di luci avverte il pubblico di essere di nuovo nell’abitazione dei due coniugi. I riflettori, sino ad allora al massimo dell’intensità, vengono abbassati di colpo, avvolgendo gli attori in una penombra soffocante che tematizza la solitudine dei personaggi e lascia presagire il dramma imminente. L’incontro casuale con KK Joe risveglia nel marito la gelosia sopita con la conseguenza di annullare definitivamente il già flebile dialogo della coppia. Sebbene, infatti, il tradimento avesse interrotto sùbito il rapporto intersoggettivo fra l’uomo e la donna, è nel finale che si consuma l’ultimo atto della feroce sottomissione. Convinto che la moglie debba ancora espiare i propri errori, Philémon pretende che superi un’altra prova prima di concederle il perdono decisivo: dovrà portare con sé e con il marito il costume durante una pubblica passeggiata. Matilda accetta, ma l’umiliazione di esporsi al ludibrio della gente la rende una vittima sacrificale, alla quale soltanto la morte può restituire il giusto decoro. Sulla strada principale di Sophiatown, la donna sorride, saluta, si sforza di mantenere un atteggiamento naturale con Philémon, eppure la rigidità dei movimenti e delle posture, lo sguardo perso nel vuoto, la voce tremolante sono le specchio di un disagio che ha superato i limiti dell’umana sopportazione. Di ritorno a casa, Matilda va a dormire e un buio pressoché totale, anticipatore del suo destino, cala sulla scena. Il mattino seguente non si risveglierà più e toccherà al marito, felice di aver riscattato la moglie infedele, constatarne la morte. Una morte che si rivela la tappa conclusiva del calvario psicologico di Matilda e addirittura meno traumatica dei laceranti soprusi di Philémon, il cui grido disperato fa da contrasto al corpo immobile di Matilda sdraiata sul letto. Quest’ultimo assomiglia ad una bara e sovrasta lo spazio disadorno, riempito dalla scenografa Chloé Obolensky da qualche sedia, un tavolo e uno stand appendiabiti. Oggetti concreti, semplici, trasformabili, privi di qualsiasi esuberanza teatrale che ritrovano il loro dinamismo a contatto con gli attori e che si prestano ad essere adattati alle esigenze della rappresentazione. Di volta in volta, sono una finestra o una porta (all’inizio, ad esempio, lo stand appendiabiti è la finestra dalla quale fugge KK Joe e poco dopo la porta dalla quale entra Philémon), una panchina o un armadio; servono per ricreare l’ambiente domestico o il club, un bar o una via di Sophiatown. A circoscrivere, poi, lo spazio delle azioni un grande tappeto rosa di cotone. Dal viaggio in Africa, il tappeto è una costante dei lavori di Brook e delinea la zona in cui l’atto teatrale affonda le sue radici, il territorio dove l’attore non ha che le proprie risorse interpretative da esporre e da verificare. In Le costume, il tappeto è sistemato sul pavimento delle Bouffes du Nord e occupa gran parte dell’area scenica, circolare, di questa antica sala all’italiana, riscoperta dal regista alla periferia di Parigi nei primi anni Settanta e restaurata secondo il modello spaziale elisabettiano. Gli spettatori, seduti su panche di legno e sui loggioni a cilindro, sono disposti a semicerchio intorno agli attori con il tappeto che accresce la vicinanza fino al limite della fusione, senza per questo togliere allo spazio scenico la sua natura di spazio concentrato. I confini non sono insuperabili, ma sussistono e la relazione fra scena e platea pur spinta al massimo dell’intimità non giunge alla loro reciproca assimilazione. Teatro e vita secondo Brook non possono confondersi, però possono alimentarsi a vicenda e in Le costume la prova è offerta dal finale: è Maphikela, il narratore “dentro” e “fuori” la storia, a chiudere lo spettacolo e non la morte di Matilda. “Chi mi ha chiamato? Chi ha gridato Maphikela, Maphikela?”, urla Sotigui Kouyate, come a distogliere lo spettatore dalla finzione e a richiamarlo alla realtà, impressa in quel nome, “Maphikela”, che per assonanza nella pronuncia in francese sembra suggerire qualcosa di molto simile a “la mia Africa è quì”.

Note al testo

Si veda a proposito il saggio di Georges Banu “Una rivoluzione a spirale o il disegno di un’opera” contenuto nel volume, da lui stesso curato, Peter Brook. Da Timone d’Atene a La Tempesta o il regista e il cerchio, trad. italiana di Claudia Palombi, Firenze, Casa Uscher, 1994, pp. 183-193.

Ibidem, pp. 122-125.

La visione caleidoscopica del “mondo in rilievo” tanto agognata dal regista e ben espressa in Il punto in movimento, Milano, Ubulibri, 1988, pp. 22-24, è ottenuta dai rimandi continui tra il “piccolo” e il “grande”, il “sacro” e il “rozzo”, il “quotidiano” e il “cerimoniale”, gli uni parte integranti degli altri proprio come avviene nella vita.

Lo studioso francese Georges Banu vede nella “fluidità assiologica”, ovvero nella particolare inclinazione di Peter Brook per le “verità relative”, l’elemento caratterizzante della poetica del regista. Op. cit., pp. 88-89.

Poiché il racconto epico di Farid Uddin Attar rischiava di apparire uno spettacolo totalizzante sull’esistenza dell’uomo, Brook decise di unirvi la commedia del drammaturgo senegalese Birago Diop, recuperando in tal modo la consuetudine della tragedia greca sempre accompagnata da un dramma satirico o quella del Nô unita di prassi al Kiogen nella tradizione giapponese.

Nel corso della traversata africana, gli attori erano soliti creare degli eventi nelle strade o nelle pubbliche piazze, ponendo un tappeto a terra e animando con la sola forza dell’immaginazione oggetti concreti (una scatola, una scarpa, un pezzo di pane).

Sul significato del viaggio in Africa si veda, in particolare, Peter Brook, op.cit., pp.107-118.

Peter Brook, in Afrique du Sud. Thèâtre des Townships, Paris, Actes Sud-Papiers, 1999, p. 8.

Brook è particolarmente affascinato dal clima vivace delle strade e delle piazze e in più di qualche occasione ha affermato che il suo teatro mira ad essere l’equivalente della piazza pubblica: un luogo, cioè, dove persone diverse si incontrano, si sfiorano, si mescolano anche soltanto per la breve durata di un evento.

Lo spettacolo, che ha debuttato al Théâtre Les Bouffes du Nord (Parigi 7 dicembre 1999 – 26 gennaio 2000), sarà in Italia dal 6 all’8 aprile al CineTeatro Olimpia di Taormina e dall’11 al 16 aprile all’Arena del Sole di Bologna.