a1n6stuarda1Roma – La storia è giunta all’epilogo e la Maria schilleriana geme e si contorce nel suo letto di carcerata, preda di atroci incubi. Diciotto anni di prigionia non sono pochi specialmente per la regina di Scozia che appare orami sconfitta dalla rivale Elisabetta, sovrana d’Inghilterra, e da quei fantasmi di uomini a dorso nudo fuoriusciti dall’armadio cabinato che circoscrive la scena.

Tragedione romantico (la prima rappresentazione nella Weimar di Goethe è del 1801), questa Maria Stuarda che Giancarlo Sepe traduce, riduce e affida alla messa in scena di Pierpaolo Sepe, arriva all’Eliseo di Roma (fino al 28 maggio) con una fremente Marina Malfatti, contrapposta all’algida regalità di Giuliana Lojodice. Lo scontro veemente tra le due maestà – già ripulito dei motivi religiosi da Friedrich Schiller nella trattazione del materiale storico e concentrato negli ultimi giorni di vita di Maria Stuarda – diventa anche per i Sepe un trionfo di sentimenti e di passioni umane, ricoperti tutti da una asfissiante coltre di terrore. E’ la paura l’emozione che attanaglia ogni pensiero e ogni azione delle due donne.
Quando mancano poche ore al precipitare degli eventi, Maria (la cattolica) spera ancora nella sua liberazione e in cadente veste da camera bianca scaccia i fantasmi delle sue colpe – congiure e assassini nei quali perisce anche il secondo marito, Darnley – affidandosi a Mortimer (Leandro Amato) per incontrare Elisabetta e chiederle la grazia. E convince la partitura gestuale di Malfatti, giocata tutta su un registro antinaturalistico di scatti, flessioni e torsioni del busto, lunghi passi sghembi che la fanno vacillare.
a1n6stuarda2Anche sul piano formale le due regine si contrappongono, con Lojodice misurata nei gesti e ferma sui tacchi a spillo nella sua Elisabetta (la protestante) imparruccata stile Marilyn e fasciata da un abitino viola. Sorpresa nell’intimo della sua reggia, mentre la messinscena sembra prendere i toni di un noir cinematografico anni Quaranta, Elisabetta teme per la sua corona, trama e flirta con Leicester (Pino Tufillaro).
Inaffidabili cortigiani, sia quest’ultimo sia Mortimer, che appaiono distanti dal fervore delle due donne, nonostante le reiterate adulazioni e le dichiarazioni di devozione e amore. Nei due prevale la ragione del potere, qualunque esso sia. Una razionalità inaccettabile dal “rivoluzionario” Schiller, segnato dallo “Sturm und Drang” che stava scuotendo l’Europa.
La musica accompagna l’intera ora e venti di azione degli attori in uno spazio allargato e ristretto dallo scivolare dei moduli scenografici che compongono quell’armadio pieno di scheletri. Raccolte da microfoni direzionali le voci però arrivano chiare e preparano al grande incontro tra le due regine. Qui, a Fotheringhay, per Elisabetta d’Inghilterra il terrore di essere detronizzata da Maria Stuarda diviene ancora una volta reale. Il dialogo Malfatti-Lojodice sale di intensità e gli insulti rinnovano la piaga del ripudio di Anna Bolena da parte di Enrico VIII. Elisabetta è una “bastarda”. Tra le due donne la rottura è definitiva.
Ma la sentenza di morte che incombe dall’inizio sulla testa di Maria sarà un potere sfuggito di mano ad Elisabetta a farla eseguire. La tragedia si compie per liberare solo Maria Stuarda. E alla solitaria regina d’Inghilterra insieme allo scettro restano anche gli insopportabili fantasmi della rivale.