a1n2edipoRoma – L’antica tragedia greca era un’opera raccontata dinanzi al popolo, il quale era il coro stesso, commentatore e narratore dell’epopea, dei lutti e delle imprese delle grandi famiglie della nobiltà greca. Il coro – e il popolo – erano un elemento insito e imprenscindibile della scrittura teatrale. L’opera aveva quindi una dialettica lineare: v’erano da una parte gli eventi narrati, l'”epos”; dall’altra il coro – popolo – referente degli eventi. Lo stesso spazio teatrale – la cavea con gli spettatori distribuiti sulle gradinate circolarmente restituiva il segno democratico del canto tragico che si alimentava della partecipazione corale degli spettatori.

Crediamo che a questa dimensione si sia ispirato Mario Martone, con l’aiuto creativo di un artista come Mimmo Palladino, nella creazione di uno spazio consono per “Edipo re” che ha presentato al Teatro Argentina di Roma. Infatti la platea è stata svuotata delle poltrone ed è divenuto il luogo cavea dove il popolo agisce, commenta, partecipa; mentre il palcoscenico, denudato e lontanissimo, ci mostra la reggia di Edipo, il Palazzo, con squarci privati delegati ai dialoghi intimi tra il re di Tebe e Giocasta.

Inoltre il luogo si è avvalso di un ulteriore prolungamento con gli spettatori dislocati nei palchi raccolti dietro palizzate e porte che aprono e chiudono l’ingresso nella città, come si sa funestata dalla pestilenza.

Tebe è quindi contaminata e il popolo sussurra che tale contaminazione è dovuta a qualcuno che l’ha resa empia; da qui l’ira degli dei e l’affanno del re che si dibatte a ritrovare le cause e le ragioni, le responsabilità.

Sappiamo, come ci dice più volte Sofocle, che le ragioni sono scritte nel destino stesso di Edipo che ha ucciso suo padre Laio e giace con sua madre Giocasta e che è padre e fratello insieme dei suoi figli. L’interdetto, il divieto, cammina sulle spalle inconsapevoli di Edipo e la ricerca della verità, verità interiore quindi, dura il tempo della tragedia. Lui che ha risolto l’enigma della Sfinge e con il suo ingegno ha conquistato la città, ora si trova alle prese con un enigma più grande e più terribile: guardare nel fondo della propria anima; leggere i segni del suo destino. Inizia quindi un gioco di decifrazione dell’enigma – Edipo che rimbalza da una parte all’altra della scena: c’è Tiresia che sa ed è il primo ad essere convocato; poi c’è un servitore che sa e anch’esso verrà convocato; c’è inoltre Giocasta che sa e un pastore del Citerone. E pezzi di verità si rincorrono e si inseguono da una voce all’altra; saltano soprattutto sulla pelle dì Edipo, che inquieto, afflitto, angosciato chiede e teme disperatamente di sapere. La verità gli occorre per liberare la città dalla pestilenza ma è evidente che il percorso è soprattutto interiore, per questo più arduo e complesso. Quello che non si vuole sapere non esiste, gli dicono, nella speranza che lui desista dal suo proposito; ma Edipo ha sfidato la Sfinge e, eroe tragico per eccellenza, non può non raccogliere quest’altra fatale sfida. La verità infine gli crollerà addosso ed Edipo piomba nella cecità e nel buio assolato. La città è salva ma la rovina di Edipo sarà assoluta, come la tragedia che rappresenta.
Martone lavora da diversi anni sulla tragedia classica, dal Filottete ai Persiani ai Sette a Tebe; è un territorio quindi non nuovo; tuttavia ci pare con l’Edipo re che il suo percorso abbia raggiunto un’altissima vetta. A cominciare dalla restituzione di un classico nella sua interezza e nella sua fascinazione, Per la prima volta la vicenda di Edipo ci è parsa vicinissima e per questo inquietante. Nell’interpretazione eccellente di Claudio Morgante, Edipo ritrova i toni di una tragica deriva contemporanea; l’ostinazione della libertà, l’ossessione a voler guardare dentro se stesso, la paura e l’angoscia per sé e i propri figli; l’insicurezza della perdita di un amore, sia pure illecito e proibito: un uomo al centro del mondo che si dibatte contro l’indicibilità della propria condizione umana. A tutto questo concorrono una scelta felice degli attori, a cominciare da Claudio Morgante un Edipo teso, irato, violento, forte, superbo; Carlo Cecchi nel ruolo di Tiresia; il duro e saggio nobilissimo Creonte di Toni Servillo; Licia Maglietta, nel ruolo di Giocasta, sempre più brava e che sa trovare i toni morbidi e caldi, e non facili, di una moglie-madre. Ma anche la scelta di attori extracomunitari che con le loro litanie etniche ci restituiscono un’atmosfera arcaica, un clima di dolorosa, emotiva classicità.

E l’uso dello spazio notevole, con un teatro metropolitano che diventa, come d’incanto, contenitore del Mito; luogo della contaminazione; lontana sede del re e sua moglie con porte gigantesche che si aprono; vasche dove si immergono come in un sensuale, ancestrale liquido amniotico madre e figlio amanti. E l’urlo finale lancinante che si ripercuote orribile sugli spettatori e che rimanda a quell’altrove della tragedia, che è sempre narrazione luttuosa di eventi lontani ma non meno terribili. E infine il buio, totale, assoluto, nel quale piomba per alcuni minuti Edipo. Un’invenzione teatrale straordinaria che lascia senza fiato, di grande teatro.

Molto successo e molti applausi. Uno spettacolo di respiro europeo che può stare alla pari con i maestri invitati fin qui all’Argentina da Mario Martone.