a1n3tara1Milano – La guerra civile, i conflitti internazionali, il terrorismo. In una pièce popolata di poliziotti e spie, ideologi del razzismo e capi di stato, è di scena la Germania degli “anni di piombo”, nel racconto di due eventi drammatici dell’epoca. Il dirottamento di un Boeing della Lufthansa da parte di un commando palestinese, finito in un sanguinoso conflitto a fuoco con le teste di cuoio, e ancora il sequestro e l’uccisione del presidente degli industriali tedeschi, uomo dal passato nazista, Hanns Martin Schleyer da parte dei terroristi della RAF che porterà all’oscuro ‘suicidio’ nel carcere di Stammheim dei componenti del gruppo Baader-Meinhof. Tutto questo e molto di più racconta con tagliente e visionaria lucidità Antonio Tarantino, nel suo Materiali per una tragedia tedesca, in scena dal 31 marzo e fino al 12 aprile al Teatro Grassi (ex Piccolo) di Milano con la regia di Chérif e oltre venti attori a dar voce ai circa ottanta persona ggi del racconto. Per trasmettere, quel clima di misteri e violenze, d’intrighi internazionali e verità di stato, Tarantino sceglie i modi della farsa, del grottesco contrasto tra la tragicità degli eventi, e la comicità della loro rappresentazione; un balletto macabro che guarda al teatro politico di Brecht ma anche al nostro avanspettacolo. Un campione lucido di come l’attualità si porti in scena non inseguendo i linguaggi della cronaca, ma deformandone il volto, a mostrare la spettrale tessitura delle logiche di potere, per riflettere su certe pericolose devianze delle nostre democrazie, ma anche per gettare uno sguardo sarcastico e disincantato sulle intransigenze d’ogni ideologia.

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In una ambientazione ideata dallo scenografo Luigi Serafini (che ha curato anche i costumi), il sipario si apre sull’immagine di un obitorio: garze in croce alle pareti e la carta geografica delle due Germanie, un cadavere avvolto in un lenzuolo bianco e un medico legale, o meglio lo psicologo di stato Salewsky, interpretato da un dosatissimo Gianfranco Mauri, ad illustrare i risultati dell’autopsia. Non sappiamo a chi appartenga quel corpo senza vita, ma ben presto, dalle crude metafore del resoconto, scopriamo che si tratta di uno dei componenti del gruppo Baader-Meinhof, i fondatori del movimento terroristico della RAF, morti in circostanze misteriose nel carcere di Stammheim dove erano reclusi. Ma quel cadavere è, allo stesso tempo, anche quello della Germania prima della caduta del muro, che nella durezza dello scontro tra gli opposti schieramenti, tra la ferocia repressiva del potere e l’irriducibile radicalismo della lotta armata rivoluzionaria, disegna la parabola discend ente di un modello politico colto al suo declino. Le ultime perdite in un campo di battaglia che si chiama ideologia. L’autopsia è illuminante nella sua macabra diagnosi: “Qui dentro c’è tutto il meglio che la fabbrica delle illusioni abbia prodotto in cent’anni d’inganni… un cuore, che prima di cessare di amare per obbedire, deve pure aver creduto: presenta infatti una lesione dalla parte della buona fede.” E ancora “il lobo sinistro, sede dell’égalité, presenta un’ammaccatura, il lobo destro, sede della fraternité, è praticamente distrutto, l’ipòfisi, sede dell’utopia, si è come dissolta tra i resti sconvolti di una fraternité passata dall’illegalité alla clandestinité … Diagnosi?…Ideologia.” Ascoltando queste battute viene in mente la lezione di anatomia del medico protagonista del testo di Thomas Bernhard L’ignorante e il folle, ma il linguaggio di Antonio Tarantino è ancor più radicato nella materia, nella cruda verità del corpo con i suoi umori e le sue miserie, con le sue pulsioni e necessità. Un linguaggio aspro, asciutto, a volte severo, a volte lirico, a volte osceno, che attinge dalla concretezza della realtà quotidiana, per poi trasfigurarsi in una lingua di personalissima ed eversiva visionarietà. Esilarante nella sua paradossalità, la scena in cui Giovanni Crippa nei panni dell’industriale Martin Schleyer, compare in mutande, nella prigione del popolo dove è segregato. Come incurante della drammatica situazione, concentra la sua lamentazione in un lungo monologo sull’indecorosità e la scomodità degli slip, o troppo stretti a comprimere e segare, o troppo larghi ad attorcigliarsi attorno alle parti più sensibili dell’uomo, e quel ridicolo indumento diviene, man mano, la metafora di una costrizione, di una coercizione inesorabile, come quella prigione dalla quale Schleyer uscirà solo da morto. E che dire dell’irresistibile parodia del dialogo telefonico tra il cancelliere tedesco Helmut Schmidt e il presidente somalo Siad Barre, sulla possibilità di far assaltare il Boeing in mano ai terroristi palestinesi dalle teste di cuoio nell’aeroporto di Mogadiscio. Le battute comiche e le gags surreali che Giuseppe Pambieri e Riccardo Bini si rilanciano senza sosta in scena, sono pagine degne della nostra migliore rivista. Funambolici doppi sensi, irresistibili confronti di forza, minacce, corruzioni e trattative, messi in scena come un teatrino di marionette, un grottesco e sgangherato balletto di potenti. Perdono colpi la scrittura di Tarantino e l’allestimento del regista Cherif nei quadri dedicati ai terroristi, le confessioni di fede del commando palestinese affacciato dagli oblò di un aereo sospeso nell’alto della scena, o le insostenibili torture psicologiche raccontate dai membri del gruppo Baader Meinhof nel carcere di massima sicurezza dove sono rinchiusi. Qui il dramma si carica di enfasi, e il lirismo si stempera nella retorica. Qualche taglio alle circa quattro ore di rappresentazione e un’accelerazione del ritmo gioverebbero all’efficacia di quest’imponente e vivacissimo affresco su questa buia e tragica pagina della nostra recente storia europea.