a1n7odin1Roma – Avendo abbandonato l’idea di intraprendere la carriera militare (sulle orme paterne), il brindisino Eugenio Barba, nato nel 1936, dà inizio ad una sua personale peregrinazione europea, trasferendosi in Norvegia (vi prende un paio di lauree), poi in Polonia. Qui l’incontro fatale con Grotoswski (era l’epoca del glorioso “teatro povero”) cui fa da assistente per tre anni; a seguire, un viaggio in India, sulle tracce del teatro Kathakali (intorno al quale scrive un libro poi tradotto in vari Paesi). Poi il ritorno in Norvegia: avrebbe voluto lavorare come un professionista del teatro (è il 1964) ma incontra qualche ostilità. La leggenda vuole che fondi allora l’Odin Teatret (1° ottobre 1964). La prima produzione si intitola Ornitofilerne, pietra iniziale di una teoria di spettacoli che non giungono mai come esempi unici ed isolati, bensì come cosciente progetto diffusivo irrobustito da un gran disegno pedagogico, adorno di ricerca e “transformances”, ovvero performances con chiaro intento di trasformazione, essendo una “transformance” un processo performativo in grado di coinvolgere un’intera comunità, mettendone in rilievo conflitti e tramature subculturali

Senza dimenticare l’attività di Barba in prima persona, percorsa sul filo inquieto di ricchi rapporti “intellettuali”, con particolare predilezione per alcuni professori universitari (ma il capo dichiara apertamente che non tutti gli intellettuali gli interessano), con aggiunta di onoreficenze varie di derivazione accademica. Oggi, quello che per completezza dobbiamo chiamare Nordisk Teaterlaboratorium/Odin Teatret è una sorta di comunità che, dal 1966 a Holstebro, Danimarca, è forte di uno staff di diciotto elementi “stipendiati” (attori e tecnici), di finanziamenti del ministero della Cultura danese e di contributi a livello municipale, anche se, viene specificato, una parte notevole del a1n7odin2lavoro di questa “istituzione” che è l’Odin è portata avanti con attività proprie in Danimarca e nel resto del mondo.
Vista l’importanza e la reputazione indiscussa della formazione, il Teatro di Roma ha pensato di ospitare l’Odin all’interno della struttura battezzata India (dominata dallo spettacolare Gazometro, pressata dal limitrofo quartiere Marconi), per un intero mese, dal 25 aprile al 27 maggio. Il tutto dedicato a Osvaldo Dragùn (1929 – 1999) autore argentino di ispirazione brechtiana durante gli anni più repressivi del governo militare.
Dunque, spettacoli (col tutto esaurito come norma), ma anche dimostrazioni di lavoro, seminari e presentazione della famosa biblioteca del Nordisk, che possiede più di cento periodici specializzati in ambito teatrale e, almeno in Scandinavia, costituisce il più ampio archivio del settore.
In apertura, dal 25 al 27 aprile, l’esordio romano dell’Odin si è concretizzato con Dentro lo scheletro della balena, parco invito a sedersi intorno ad una tavola ove venivano offerte vivande “di base” (olive, pane, vino). Di fronte, la messinscena, resa intensa e drammatica da citazioni evangeliche dure, contraddittorie, raramente in cerca di contatto col divino, piuttosto ruotanti intorno ai temi della giustizia, di un certo manicheismo bene/male, ove, certo, paiono affiorare anche rivendicazioni di natura sociale (si avvertono gli oppressi in sottofondo, in cerca di riscatto), mai però urlate in puro stile agitprop (si pensa, a tratti, a certe cose di ispirazione Bread and puppet theatre, ma è solo un’impressione di superficie). E, quasi a dimostrazione a1n7odin3che l’immagine della tavola ricoperta di una bianca tovaglia sia una figura costante dell’Odin (qui la tovaglia suggerirebbe quasi un sipario di secondo grado, concentratamente metateatrale), ecco personaggi raccolti per un banchetto o un brindisi anche in Mythos, rituale per il secolo breve, l’ultima regia in ordine di tempo ad opera dello stesso Barba. Si sollevano i calici, dunque, e pare si insceni un saluto al comunismo, ove il saluto parrebbe più che altro suggerire il funerale del comunismo stesso, la sua “messa in archivio” sotto la voce mito. Cos’altro suggerirebbe la presenza di fantasmi vaganti, fissi nella loro storia o modo di essere (fantasmi che sono quelli di Odisseo, Medea, Edipo, Dedalo, Cassandra), cui si unisce l’agitato muoversi del rivoluzionario brasiliano Guilhermino Barbosa, che percorse migliaia di chilometri nel 1925 per fermarsi nella foresta brasiliana. Il tutto, dopo che la tavola bianca è stata bruscamente spalancata, rivelando, in basso, un rettangolo di ghiaia sottoposto a una metamorfosi senza requie. Sono, evidentemente, i vortici del tempo, capaci di assolvere anche a una spettrale funzione cimiteriale che catturerà, in ultimo, anche il corpo violentato della rivoluzione, la cui fiamma, mantenuta con sforzo accesa, ora cede al bluastro di un oppressivo requiem, fino a che due ondeggianti veli sembrano sigillare il recinto sacro di un teatro che strizza l’occhio, costantemente, all’evocazione di una cerimonia.