UNA MEMORIA CALPESTATA

a1n18vino2Bologna – Un segreto smarrito. Un ricordo da portare con sé, un pizzico di terra e qualche essenza profumata che stringi nel pugno mentre ritorni nel mondo normale. Ti rimetti le scarpe che all’inizio hai abbandonato sulla soglia. Il vino è una memoria, è Dioniso più che una serata in osteria, è una colorata fiera sudamericana, l’antica sensazione di pestare gli acini d’uva, è quella nebbia di novembre quando i tini finiscono di ribollire. E’ il Carnevale, il ballo di una comunità che vorresti esistesse e che puoi solo sognare.
Continua l’avventura europea, emiliano romagnola di Enrique Vargas, straordinario inventore di drammaturgie dei sensi. Colombiano sessantenne, un passato di drammaturgo e regista al Teatro La Mama e in altri santuari dell’avanguardia newyorkese, un presente dedicato a tradurre in fascinosi percorsi i grandi miti, gli archetipi più profondi. Collabora ormai da alcuni anni con Emilia Romagna Teatro: a Modena ha riunito un affiatato gruppo di giovani collaboratori con i quali ha prodotto diversi “spettacoli dei sensi”. Fra tutti spicca Oracoli, realizzato nel 1997, un labirinto per uno spettatore alla volta, guidato dalle carte dei tarocchi attraverso sentieri, stanze, budelli bui, apparizioni, illusioni, spiazzamenti della visione e della sensazione.
a1n18vino3Il suo Teatro de Los Sentidos, in collaborazione con Ert e con Bologna 2000-Città Europea della Cultura, presenta fino al 3 agosto allo Sferisterio di Bologna Memoria del vino o i Giochi di Dioniso (informazioni e prenotazioni al numero 051.247958 dalle 10.30 alle 12.30). Questa volta lo spettatore non starà da solo di fronte a misteri e apparizioni. Siamo più di quaranta sulla soglia, quando una specie di buffo operaio che saltella sui tetti ci invita a toglierci le scarpe. Fili di metallo e di corda bloccano il passaggio. Rotola una ruota con sopra scolpito un paesaggio: una reazione a catena fa crollare gli ostacoli di legno che sbarravano il cammino. Compare una freccia a indicare la strada. Siamo nella fiera, in un gioco ironico e naïf con le arti popolari. E precipitiamo nel buio.
All’ingresso è nero, nerissimo. Senti il vicino, imbarazzato come te. Risatine, commenti a mezza voce. Ci si tocca, per capire di non essere rimasti soli, con pudore, con imbarazzo. Uno spiraglio. Un campo di canne confitte nella sabbia. Un gigantesco shangai. Lontananze nebbiose. Alcune guide ci prelevano a gruppetti. Intorno a una candela ci consegnano queste parole: “Molto tempo fa donne e uomini si incontravano sotto un albero in riva a un grande fiume per bere, cantare e ballare. Le loro danze erano così allegre che il fiume stesso ballava con loro. Essi avevano il segreto: come scoprire l’anima che abitava le loro bevande…”. Ma le generazioni passano. Si balla e si canta sempre di meno. Si sa che un segreto c’è, ancora, anche se non si ricorda bene qual è. Poi si dimentica.
Poi noi entriamo in un altro buio. Le reazioni sono diverse. Veli e stoffe ci bloccano e ci accarezzano. Avanti piano. Sentire il vicino. Sfiorare. Ed eccoci in un accampamento: tende trasparenti intorno a tini, una fiera sudamericana che sembra uscita da un film di Fellini sceneggiato da Gabriel Garcia Marquez. Il juke-box a voce: un acino d’uva e una bocca allusiva, ironica ed erotica, canta per te. Un ombrello giostra d’uva, un teatrino portatile, una pedana che gira, una casa rosa per soli uomini che escono disfatti, seminudi, clown ciclisti, donne cannone…Danze, nelle quali si buttano gli spettatori meno riluttanti. In questa fiera si sta giocando una partita alta: rompere gli schermi della distanza degli spettatori, attirare i corpi di chi guarda dentro nell’evento. E’ più difficile qui: sono gruppo, non stanno da soli di fronte all’attore come in Oracoli. Sono pubblico. Possono diventare “comunità”?
a1n18vino4La fine della fiera è la vendemmia: nelle capanne, a tre, quattro, cinque, veniamo portati nei tini, danza sugli acini, sempre più forte, più forte, scivoli, ti reggi, scivoli. Anche chi è riluttante viene condotto impetuosamente in un’allegria dovuta. Dopo arriva il momento più alto della festa: si portano gli acini pestati e il succo a una sacerdotessa, bella, prospera, ridente. Li vuota scherzando in una grande botte, li filtra. Ma l’allegria vira: ci ritroviamo tutti stretti intorno alla botte, su una larga pedana, circondati dalle canne infitte sui bordi. Scende una cupola nera. Buio, silenzio. Suoni sgranati. Attesa. Rumori. Ribollire. Gli acini spremuti devono diventare mosto. Il mosto vino. La chimica e la poesia. Noi, attori e spettatori, cosa diventiamo?
Saremo lanciati in una nebbia densa, mascherati. Come in un paesano Eyes wide shut. Assisteremo al rito, all’apparizione di un’ombra taurina che si ingrandisce e ci ingloba, per poi ritornare piccola e tramutarsi in processione con uno stendardo dionisiaco ridente, una musica e un ritmo violenti, una festa dura o una specie di funerale. E qui andiamo verso il finale, quando fiera, gioco con una figura mascherata da toro, “comunione” con i boccali di vino, nani e giganti, evocano la festa, la comunità desiderata. Sognata, lontana in questa lacerazione di nebbia. Hai la possibilità di gettarti nella danze o di stare un poco discosto, voyeur come sempre. Il vino è realtà, la semplicità del gustare, toccare, sentire, odorare, vedere… Ma il vino, Dioniso, la terra sono anche una memoria, un segreto che non hai più e che ti sforzi di rammentare.
Ti sei allontanato per più di un’ora dal tuo mondo, forse troppo, forse i segni accumulati dalla scatenata troupe multinazionale di Vargas sono tutti troppo arcaici e non avrebbe guastato qualche rottura più dolente e ironica verso la nostra alienazione quotidiana. Ma ora ti guardi: stringi il terriccio nella mano ed esci. Senti ancora l’eco di quel canto finale di tabaccaie del Salento. Fuori c’è l’estate. Rimane quella sospensione accumulata dentro, una certa lancinante malinconia e nostalgia. Una sensazione di terra umida, fresca.