Roma – Siamo nel retrobottega, gli uffici, di una discoteca. Da fuori giungono i rumori assordanti di una disco-music. I tre personaggi, il capo, il buttafuori e il promoter – detto anche, in gergo, pierre – si preparano a quella che è una serata qualunque della loro routine. Si preparano come sempre, a base di pasticche, coca, nel senso di cocaina, e alcool. Il mondo della notte è duro, si sa. Bisogna quindi gasarsi, darsi forza, come si dice, tirarsi – e tirare – un pò su. Inoltre quella sera arriverà una ragazzetta, che nella discoteca vuole fare la cubista e i tre uomini hanno voglia di divertirsi un pò con quella sicura vittima, una piccola Ifigenia che arriva nel mondo degli Inferi.

E’ questa la premessa, o la situazione, di L’iradiddio, di Lucilla Lupaioli, in scena fino al 28 marzo al Teatro Colosseo di Roma. Il titolo ci prepara alle regole del luogo. Ci presenta inoltre il carattere dei personaggi. Se il capo si atteggia a duro, l’aiutante ci pare uno sballato fuori di testa mentre il più giovane si barcamena in quella zona grigia dei rapporti di forza tra “tosti” e subalterni. Una gara insomma, a colpi di sballi, a essere il più gasato, “er mejo”, visto che un rozzo romanesco di quartiere appare la lingua che meglio esprime la “qualità” dei personaggi. Arriva infine la ragazza. Fragile e indifesa, sprovveduta, una di quelle che si “sbattono” alla ricerca spasmodica di qualche scampolo di successo, una comparsata nelle fiction, l’idea di utilizzare il corpo, unico bene vendibile, per un po’ di soldi e un briciolo di identità. La ragazza diventa subito il trastullo dei tre; é pressata, derisa, denudata, impasticcata. Con un ridicolo costumetto di lustrini si dibatte come un anatroccolo inquinato, ricoperto di pece e di liquami, entra ed esce e ansima, tra una pasticca e una performance, fino a quando non stramazza inerte su una poltrona. I tre ragazzi si trovano così alle prese con quel corpo senza vita, un cadavere in scena. Se l’hanno umiliata prima, non di meno infieriscono ora su quell’ingombro, nuovamente oggetto dì trastullo, ricoperto e scoperto da un telo, finanche con qualche attenzione morbosa e sessuale del buttafuori. Ma soprattutto il problema sarà come liberarsi di quel corpo. E’ allora che entra in scena l’altra, Sandra, più “figa”, capace in apparenza di dominare la situazione, senza prima aver sottratto alla borsetta della morta qualche agognato trucco.

Come in un girotondo alla Schnitzler – senza tralasciare atmosfere ed umori alla Pulp fiction, la ballata, o meglio la “sballata” senza senso continua: se nel film di Tarantino l’unico problema era togliere il sangue schizzato a litri nella macchina, dall’Iradiddio bisognerà prima o poi rimuovere la morta, ma senza particolare apprensione, senza che nulla turbi i cuori e gli stomaci e l’anima impasticcata dei protagonisti.

Come lo scrittore scozzese Alan Warner, la Lupaioli ci presenta questa chemical generation in tutto il suo vuoto splendore – e squallore – lasciandoci sulla pelle, con un brillante colpo di scena finale e con forte teatralità – i brividi di una realtà di cui va preso atto, senza giudizio e senza commozione: una tragedia fredda che non ci induce ad alcuna pietà, ma a molto, molto orrore.

Non è la prima volta che questa interessantissima autrice scrive di un mondo visto dalla parte nascosta, da un’angolazione e uno sguardo sotterranei: un interno con un fuori analogamente minaccioso. Con L’anello di Erode, tra i primi e più conosciuti suoi testi, i ragazzi si muovevano nei locali di un bagno pubblico, con gli echi e i risvolti di un mondo esterno fatto di mercanteggiamenti tra “marchette” e clienti. Anche qui l’universo giovanile, veniva indagato nei suoi aspetti più crudi, come la ricerca di una difficile identità sessuale.

Testi di grande interesse, quindi, questi della Lupaioli che si avvalgono di un regista “complice” e contiguo come Furio Andreotti e di attori, che anche in questo caso, sembrano più veri del vero. Eccellenti Paolo Giovannucci nel ruolo del Pallotta, proprietario del locale; Massimo De Santis, il buttafuori, Pier Luigi Coppola, sparuto pierre. Ottime le due figure femminili, Paola Cortellesi e Lucia Ocone.

Un lavoro duro, una scrittura acuta, per uno spettacolo che consigliamo di non perdere a chi volesse farsi un’idea concreta, non banalmente sociologica e fuori dai dibattiti consueti, sulle “febbri” del sabato sera.